Le aree interne, quelle che Manlio Rossi Doria definì “terre dell’osso” in contraltare alla polpa delle coste e delle pianure urbanizzate, vivono una condizione sospesa, quasi cristallizzata, di cui nessuno si è più occupato. Non la politica che, dall’autenticità perduta delle sue classi dirigenti fino alla strenua difesa della globalizzazione, ha troppo spesso abdicato alla sua ragione d’essere, incapace di arruolare nella sua narrazione, prima ancora che nella sua vocazione, le identità particolari, le esperienze pietrose e desolate, quello che un tempo era definito ‘socialismo appenninico’ e che, con il trascorrere degli anni, quasi inconsciamente, è diventato una retrovia incolta, abbandonata al suo destino. I modelli di sviluppo hanno riservato ai Paesi dell’entroterra una condizione da ribaltare, relegati a periferia delle possibilità. La fragilità geologica di territori che soccombono continuamente all’urto della terra, che attendono il prossimo terremoto con solenne fatalità, si combina a indici di spopolamento che significano l’abbandono dei presidi minimi e indispensabili per la cura e la gestione del territorio, e al taglio dei servizi essenziali. Una destrutturazione demografica in atto da tempo, e che ha subito un’accelerata negli ultimi dieci anni. Tendenza solo apparentemente inarrestabile, a cui non ci si può rassegnare.
Il virus ha mutato le relazioni interpersonali e gli stili di vita, i luoghi dell’impotenza sociale e della solitudine improvvisamente hanno beneficiato di un turismo di prossimità, piegato il mito della mobilità illimitata. E’ un flusso di ritorno, che si riconosce nella residenzialità affettiva. Un turismo affascinato dalla “restanza”, che fa dell’identità dei territori e di chi li abita un’idea mobile, dinamica, aperta. E’ un elemento importante ma insufficiente nell’opera di contrasto al vuoto prodotto dall’esodo.
Immaginare il futuro della spina dorsale del Mezzogiorno d’Italia presuppone un’attenta riflessione sulla voragine in cui le articolazioni delle comunità meridionali rischiano di precipitare. Una spaccatura sempre più netta, rappresentativa dell’epoca che stiamo vivendo. L’enorme distanza tra città e campagna, centri urbani e periferie, capoluoghi e provincia. I sintomi sempre più evidenti di un’incomunicabilità.
A 41 anni dal terremoto dell’Irpinia, la frattura della terra si accompagna alla frattura della storia. Il dopo sisma è stato un’unica finestra temporale in cui la faticosa ricostruzione materiale è rimasta orfana di una rinascita sociale, economica e culturale. Le conseguenze di una cesura della storia hanno segnato il destino delle comunità colpite: nel respiro dei posti, nello svuotamento dei paesi dove la controra è condizione permanente, nella rassegnazione che accompagna il lento scorrere, il tempo affonda nel conforto del ricordo, sembra escludere ogni idea di futuro.
Da Calitri, in occasione della ri-creazione dello Sponz Fest ideato e diretto da Vinicio Capossela, dove quest’anno il dibattito si è concentrato sulla necessità di co-progettare proposte per un Manifesto delle Aree interne, Paese Sud inaugura il racconto delle terre del cratere, calandosi nel vivido lamento, negli echi e nelle crepe del profondo Sud. Un’indagine a oltranza sulle ferite, sulle condizioni, sui modelli di vita e di sviluppo delle comunità, senza prescindere da uno sguardo lucido sul contributo della nuova generazione, su chi ha deciso di restare e di investire. Tornare sui territori documentando, nel complicato passaggio generazionale, le realtà emergenti, le energie nascoste. Con l’intento ulteriore di ereditare e trasmettere memoria. Le aree interne, come recita il manifesto dello Sponz all’Osso 2021, vanno difese a partire dall’immaginario, perché se le perdiamo non abbiamo più rifugio. Affinché il nostro entroterra diventi laboratorio di innovazione sociale per lo sviluppo del Paese, occorre riprenderne il racconto attraverso uno spazio di testimonianza e di proposta. Proiettando lo sguardo a un futuro che includa la possibilità di ri-tornare, di ri-abitare. Con la consapevolezza che curare il territorio significa prendersi cura di noi stessi.