In principio erano le telecamere di sicurezza per le strade, poi le prime webcam seguite dalle fotocamere sugli schermi dei nostri computer portatili. Poi è stato il turno dei navigatori, del GPS e dei microfoni degli smartphone, ora c’è anche il Green Pass.
Siamo nell’epoca della dittatura dei dati?
Viviamo nel continuo terrore della raccolta dati, ci sentiamo continuamente schedati, classificati, spiati, minacciati.
Ma i big data, le pratiche di “grandi raccolte dati”, rappresentano davvero una minaccia per la società?
Nel 2014 il consorzio Amsterdam Smart City – una rete pubblico-privata focalizzata sull’impostazione della città di Amsterdam come Smart City di successo – ha avviato un progetto con la collaborazione tra una start-up di Barcellona e diversi istituti di ricerca e salute ambientale olandesi.
Il progetto si chiamava “Smart Citizen Kit” (volendo azzardare una traduzione forzata: “il kit della cittadinanza intelligente”).
Centinaia di residenti ad Amsterdam hanno ricevuto: dispositivi di monitoraggio della qualità dell’aria a basso costo, una spiegazione del software usato e una linea temporale per il progetto. I dati raccolti dai Kit distribuiti avrebbero influenzato il governo a pianificare politiche d’intervento per l’ambiente e altri settori correlati.
L’esperimento condotto nella capitale olandese ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora riguardo a ciò che viene definito “citizen science” (letteralmente, scienza dei cittadini in inglese).
Il primo problema con cui si sono scontrati i risultati attesi è stato quello dell’affidabilità dei dati raccolti: le misurazioni ottenute da persone non esperte, in alcuni casi, sono risultate approssimative o inesatte. Una criticità tutto sommato “positiva”: perché era già stata parzialmente prevista, trattandosi di una prima volta, e perché l’errore è naturale quanto importante nel metodo scientifico, specialmente nella raccolta dati, poiché consente sempre valutazioni di miglioramento nelle applicazioni future.
Il rappresentante di Amsterdam Smart City, Saskia Müller, dichiarò al pubblico che erano solo all’inizio di “un enorme sviluppo”, un lungo percorso che aveva a che fare con “grandi quantità di dati raccolti su quasi tutto”.
Un’affermazione che ha condotto al vero nocciolo della questione, quello più cruciale forse: il rapporto tra dati, cittadini e sicurezza.
Come spesso accaduto anche in Italia, una parte del dibattito si è focalizzato sullo scenario in cui “pochi soggetti forti” possano raccogliere e gestire una mole impressionante di dati, riguardanti le abitudini e in generale la quotidianità dei cittadini. Da questa prospettiva le persone vengono quindi inquadrate come delle cavie da laboratorio, dalle quali estrarre quante più informazioni possibili per sottoporle a forme di controllo sempre più invasive.
Lo “Smart Citizen Kit” è stato così sottoposto a numerosi studi accademici, l’ultimo dei quali condotto nel 2020 dalla stessa Università di Amsterdam, dal titolo “In search of the Smart Citizen: Republican and cybernetic citizenship in the smart city” (Alla ricerca della cittadinanza intelligente: cittadinanza Repubblicana e Cibernetica nella smart city), a cura di Justus Uitermark – Dipartimento di geografia umana, pianificazione e studi sullo sviluppo internazionale, Università di Amsterdam – un sociologo e geografo di fama internazionale che studia come diversi tipi di ambienti, online e urbani, modellano i conflitti culturali e le relazioni di potere.
Allo studio ha partecipato anche Dorien Zandbergen – illustre ricercatrice di sociologia e antropologia presso l’Università di Amsterdam.
«Partner esperti di organizzazioni per la salute ambientale hanno sostenuto che il kit non si è aggiunto significativamente alle fonti di dati esistenti, in quanto le molteplici reti di misurazione ufficiale consentono già di stimare l’effetto delle condizioni locali sull’inquinamento». Un’affermazione che, presa isolatamente, potrebbe avallare gli scetticismi e sminuire il senso dell’esperimento dello “Smart Citizen Kit”.
Continuando nella lettura dello studio si legge che «il KIT ha generato dati in grado di esercitare una leva politica, tale da indurre trasformazioni amministrative e decisionali. Ciò ha costituito il presupposto per cui questi dati avrebbero funzionato come contrappunto cruciale alle misurazioni ufficiali esistenti».
E’ forse questa la chiave di lettura più interessante: una raccolta dati che facesse da contraltare a quelli prodotti ufficialmente dalle istituzioni, alimentando un monitoraggio civico proveniente dal basso, esercitato direttamente dai cittadini, dotati di strumentazioni che li rendessero partecipi dell’amministrazione comunale nell’ambito di settori centrali come ambiente e salute.
Sono numerosi i casi studio, anche italiani, che vanno in questa direzione. Secondo uno studio di Cassa Depositi e Prestiti condotto nel 2013, va sottolineato che «Smart non è semplice sinonimo di Digital, in quanto un ruolo centrale deve essere assunto dal cittadino e dal suo utilizzo consapevole della tecnologia come strumento abilitante per fenomeni di innovazione sociale». In uno scenario innovativo, in cui i confini delle città vengono progressivamente ridefiniti, «gli utenti – continua lo studio – potranno contribuire attivamente allo sviluppo urbano, ad esempio, attraverso nuove app che utilizzino dati resi disponibili per tutti». La tecnologia diventa così un mezzo che consente ai cittadini di poter sviluppare le proprie idee in un processo di partecipazione attiva. Si provi a pensare a sistemi di gestione della mobilità e del traffico, monitoraggio ambientale, dispersione idrica, efficienza energetica dei condomini, o ancora al Fascicolo Sanitario Elettronico.
Nonostante molte proposte siano diventate realtà nel mondo, il nostro Paese ancora fatica a considerare l’investimento in infrastrutture digitali. Nel 2011 l’ISTAT, nel rapporto “Infrastrutture in Italia” sottolinea che «Non sono presenti nello schema (di classificazione delle infrastrutture, ndr) importanti dimensioni quali ad esempio quelle relative alle telecomunicazioni, alla ricerca e sviluppo e alla giustizia e sicurezza». Questi settori risultano ad oggi esclusi «a causa della mancanza di dati ad un livello territoriale sufficientemente raffinato e tali da garantire la copertura di tutte le dimensioni utili».
Necessità ribadita ancora nel 2017 dall’OICE – Organizzazioni italiane di Ingegneria, architettura e Consulenza tecnico-Economica – nel rapporto “Smart City: uno strumento per le comunità intelligenti”.
La città può diventare il laboratorio perfetto dove studiare il rapporto sempre più stretto tra la tecnologia, le persone e lo spazio; il luogo in cui «l’internet delle cose si declina in intelligenza d’ambiente, in cui i nuovi materiali e le fonti di energia rinnovabili si trasformano in edifici e città ad impatto zero».
E’ altrettanto importante ribadire che il legislatore pubblico dovrebbe avere il ruolo di proteggere il cittadino rispetto ai problemi della privacy e della sicurezza. La gestione di una sempre maggiore quantità di informazioni da parte di vendor ed operatori pubblici può portare alla lesione della sfera privata dell’individuo, che dunque deve essere salvaguardata.
Una tutela già ampiamente definita nel nostro paese, se solo pensiamo alla mole di dati gestiti e completamente protetti da enti come Agenzia delle Entrate, INPS, Camere di Commercio, che elaborano e conservano dati sensibili di migliaia di aziende e milioni di singoli cittadini.
La “cittadinanza intelligente”, così come definita nel contesto del kit Smart Citizen, richiama quindi una sfera urbana che è vincolata a regole e accordi sociali, ma che risponde anche in modo flessibile alle preferenze individuali.
Si tratta di una forma di cittadinanza cin grado di creare opportunità per il potere civico, in relazione a diversi “campi d’azione” digitali. Un potere civico che può essere immaginato e sperimentato con strumenti che producono dati scientifici, grazie a infrastrutture digitali che producono ambienti di influenza e azioni decentralizzate in tempo reale. Sono i cittadini che possono quindi esercitare il proprio potere con le autorità scientifiche e politiche, nonché in ambienti digitali complessi, per ora “fuori controllo civico”.
Tutto questo sembra avere un sapore del tutto diverso da una “dittatura dei Big Data”, un argomento su cui tanti si esprimono, forse però senza avere abbastanza dati per parlarne con cognizione di causa…
“Big Dadi: il gioco pericoloso dei Dati”
il reportage a cura di Marco Giordano,
dottore in Economia e Commercio – laureato in Economia Regionale e Pianificazione Urbana.