Tante volte ci chiediamo quale sia il ruolo di quel – non sempre – casuale armonico bisticcio di parole che chiamiamo poesia. Domanda che apre un’immensa voragine di risposte. Diverso e personale è l’approccio di ogni scrittore, come anche quello di ogni lettore; tuttavia, in linea di massima, la cultura occidentale ha notevoli differenze rispetto a quella orientale: individualista la prima, collettivista la seconda, tanto per citare due dei tanti poli di diversità. Tali differenze non possono che immergersi nella ed emergere dalla poesia. Tipicamente orientale è il componimento poetico minimale dello haiku, di origini molto antiche. Nasce in Giappone intorno al 1600 (periodo Edo), ma fonda le sue origini da quella peculiare poesia collaborativa chiamata renga, ossia una sequenza di tanka, un altro tipo di poesia breve risalente già al 400-500 d.C. Lo haiku può essere considerato una sotto-branca del tanka, visto che da questa riprende i primi tre versi, per un totale di 17 sillabe totali suddivise secondo la struttura 5-7-5. Seppur non sempre rispettata dai poeti moderni, questa rimane la forma classica e tradizionale. In giapponese in realtà non si contano le sillabe, ma gli on, i segni grafici dell’alfabeto giapponese. Uno haiku è quindi formato da 17 on e dunque una poesia in italiano può risultare più lunga rispetto a quella giapponese.
Che tra haiku e poesia occidentale vi sia un punto di incontro lo testimoniano i molti poeti occidentali che si sono cimentati sia nel genere dello haiku che in generi similari: Borges, Pessoa, Ezra Pound, Rilke, Lorca, tanto per citarne alcuni. In Italia, invece, tra i tanti, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto e la corrente dell’ermetismo.
Oggi questo genere poetico suscita sempre più interesse sia nel mondo del web e dei social sia nell’editoria. Anche nel Cilento, un paradiso di terra e mare, luogo ideale per una metamorfosi panica e fonte inesauribile di ispirazione, essendo ancora forte il contatto con la natura incontaminata, troviamo un autore di haiku: è Antonio Sacco, classe ’84, da sempre appassionato di scrittura e lettura, sebbene abbia una formazione universitaria con esami in veterinaria e medicina, per poi conseguire una laurea in fisioterapia. “La poesia è diventata essenziale quando ho dovuto affrontare periodi difficili della mia vita ed elaborare traumi emotivi. Dalla poesia in generale, una sera del Novembre 2012 avviene il mio incontro con la poesia giapponese e lo haiku in particolare, leggendo casualmente il libro di Erich Fromm Avere o Essere? nel quale compare un confronto tra due componimenti originatesi da un evento affine: l’incontro con un fiore durante una passeggiata da parte di due poeti; uno di questi è Tennyson, il quale, in una poesia in versi liberi strappa il fiore recidendo le sue radici, mentre il Maestro Bashō, poeta giapponese, si limita ad osservare il fiore. Fromm evidenza dunque, anche da un punto di vista poetico, la modalità dell’avere, tipica dell’Occidente e la modalità dell’essere, caratteristica dell’Oriente. Da ciò nacque la mia curiosità sullo haiku e iniziai a cimentarmi nel comporre il mio primo:
calma autunnale:
nel sottobosco un frullo
smuove il pacciame”.
Caratteristica degli haiku è la presenza di una forma di sospensione all’interno del componimento, realizzato in giapponese con un kireji, ovvero una “parola che taglia”: si tratta di una o due sillabe (cenema) che, pur non avendo un vero e proprio significato, svolgono la precisa funzione di interrompere il ritmo della poesia per ricercare il collegamento tra le sue parti. A seconda del kireji utilizzato si vuol dare una sfumatura diversa: segnare uno stacco tra due versi e mettere in evidenza la parola precedente o evidenziare un’esclamazione per indicare stupore o dubbio. In italiano, come in altre lingue, non esiste una traduzione diretta del kireji, che viene spesso reso con un trattino o un segno di punteggiatura come avviene, ad esempio, in questo componimento di Sacco:
“amore perso –
la neve seppellisce
qualunque cosa“.
In questa poesia, come del resto nella stragrande maggioranza dei componimenti haiku, abbiamo una giustapposizione, ossia un collegamento, di due immagini distinte. La funzione del kireji è quella di raccordare le due immagini proposte rispettivamente al primo ku (verso, momento poetico) e al secondo e terzo ku.
Il tema nei componimenti haiku è libero, ma tradizionalmente concentrato sugli elementi della natura e sul rapporto tra questi e la condizione umana creando un’immagine per quanto possibile obiettiva, nella quale si annulli l’Io del poeta ed emerga il “non detto”, esprimendo un messaggio profondo attraverso il minor numero possibile di parole, eliminando dunque pronomi, articoli, avverbi e aggettivi, utilizzando un lessico immediato che lasci spazio all’interpretazione del lettore.
Della cultura giapponese lo haiku rispecchia il suo esprimere molto con poco, ricercare sensazioni più che spiegare concetti: caratteristica, questa, tipica di tutte le arti giapponesi dalla pittura sumi-e ai suiseki, dalla letteratura all’ikebana. Questo perché, così facendo, si lascia spazio alla suggestionabilità, e la suggestione è il segreto delle arti giapponesi. Lo scopo non è stupire. Matsuo Bashō, uno dei quattro grandi maestri riconosciuti – gli altri sono Yosa Buson, Kobayashi Issa e Masaoka Shiki –, riprese il suo allievo Kikaku con queste parole: “Hai la debolezza di voler stupire. Cerchi versi splendidi per cose lontane; dovresti trovarli per cose che ti sono vicine”.
Nello haiku non vi è necessità di un titolo che potrebbe indirizzare l’attenzione del lettore verso un dato argomento, bisogna invece che sia sempre presente un kigo, ovvero un riferimento stagionale diretto o intuibile. Il kigo è il fulcro di un componimento haiku, questo perché emozioni e sentimenti dello haijin (scrittore di haiku) raramente sono espressi in maniera diretta, ma vengono veicolati proprio attraverso il kigo. Lo vediamo in quest’altro componimento haiku di Sacco dove è proprio la caduta dei petali di pruno ad indurre nel lettore un senso di caducità e impermanenza (mono-no-aware):
andare via
anche il pruno saluta
i propri petali.
Vi sono poi due stili differenti utilizzati nella scrittura: si può scegliere di anticipare il tema nel primo verso per poi svilupparlo in quelli successivi oppre, in alternativa, presentare due temi in contrasto (nibutsu sougeki) o in armonia tra di loro (torihayasi). Il componimento può essere infine associato a uno haiga, ossia un’immagine, un dipinto, una foto, usando testo e immagini per creare un unico insieme integrato.
Antonio, nella sua esperienza di poeta, ha scritto nel 2015 una silloge di haiku, intitolata “In ogni uomo uno haiku”. “Il contatto con la natura resta fonte principale per l’ispirazione poetica ed instaurare quello che i giapponesi chiamano kikan, ossia l’inscindibile binomio uomo/natura, fondamento dello haiku, oltre allo studio dei Maestri”.
Un vero haiku, dunque, dice poco, ma significa tanto.
Dopo l’invito dall’ex Associazione Italiana Haiku a presentare il suo libro a Pordenone, Antonio realizza le prime pubblicazioni internazionali su diverse interviste. Da poco, inoltre, l’autore cilentano sta sperimentando anche composizioni in dialetto, “più pregnante, espressivo e sintetico rispetto all’italiano. Dopo aver interiorizzato le regole del genere, è stato facile riportare questa forma poetica in vernacolo cilentano, creando così una molto peculiare commistione fra Giappone, Italia e Cilento”. Un haiku in vernacolo può essere considerato il seguente:
catacatascia:
appicciame ù ulìo
inda sta notte.
Ossia:
lucciola:
accendimi il desiderio
in questa notte.
“È inoltre relativamente raro – conclude Antonio – trovare in lingua italiana haiku che fanno uso di quello che i giapponesi chiamano “kakekotoba”, “parola perno”, ossia una parola che presenta più piani di lettura grazie all’omonimia delle stesse. Come espresso da Susan Stewart esempi come questo rappresentano “the clash of two levels of abstraction”, ossia “lo scontro di due livelli di astrazione”, giocando un ruolo importante nell’economia verbale di una poesia haiku”. Per fare un esempio riportiamo questo lavoro di Antonio in cui è evidente il ruolo della parola perno in un componimento haiku in italiano:
eppur perdono
il profumo dei fiori
ormai schiacciati.
Ebbene a seconda di dove verrà posizionato l’accento tonico e lo stacco (kireji) il significato del componimento varierà nel senso (haiku polisenso):
eppur pèrdono il profumo – dei fiori ormai schiacciati
Oppure:
eppur perdòno – il profumo dei fiori ormai schiacciati
Mentre l’arte occidentale trasforma l’impressione in descrizione, l’arte orientale coglie l’essenza e regala in versi sensazioni e sentimenti che emergono dall’incontro dell’animo con l’immediatezza del momento e l’essenza delle cose. Il silenzio della rilettura completa infine la comprensione, grazie alla profonda intimità che si crea tra colui che scrive e colui che legge. Come afferma il poeta giapponese Ogiwara Seisensui: “Ciascun haiku è come un cerchio, di cui una metà è frutto del lavoro dello haijin, chiudere il cerchio è però compito del lettore”.
Un componimento poetico dunque all’apparenza semplice in cui chiunque, con annessa predisposizione e/o ispirazione, può cimentarsi. Il segreto per un buon haiku, come per ogni buona cosa, del resto, è infatti calarsi pienamente nel suo spirito, cogliendone e regalandone l’essenza. Purtroppo a Vallo della Lucania, dove Antonio risiede, è ancora assente un valido fermento culturale così come iniziative di osmosi tra scrittori ed appassionati. Tutto ciò non può che ripercuotersi sullo stato di salute (di evidente cagionevolezza) del tessuto sociale in cui siamo immersi.
Lo haiku è un genere in apparente controtendenza all’attuale celebrazione dei ritmi frenetici della modernità; eppure, proprio dal contrasto con essa trae la sua peculiare forma ed essenza d’evasione, scovata da chi nutre una forte sensibilità e conserva il piacere della lentezza, un vezzo che, essendoci sempre meno concesso, tanto più andrebbe rivendicato.