Una struttura demografica decisamente fragile e profondamente squilibrata. Si stima che entro i prossimi 50 anni il Paese sarà interessato da una consistente riduzione del numero dei suoi abitanti che risulteranno fortemente invecchiati. Si ridurranno sempre più le giovani generazioni mentre la più intensa riduzione di quelle attive in età da lavoro non mancherà di condizionare la dinamica del sistema economico. Aumenterà oltremodo il livello delle spese di un sistema sociale che dovrà garantire prestazioni ad un rilevante e crescente numero di anziani e molto anziani, che si stima rappresentino oltre un terzo della popolazione totale nel 2065. Inoltre, la preferenza degli immigrati per le grandi aree urbane del Centro-Nord e la continua perdita migratoria delle regioni meridionali renderà ancora più grave il processo di spopolamento dei centri urbani minori e delle aree rurali delle zone interne, montane e collinari dell’Appennino.
La ripresa dei flussi migratori rappresenta la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via via allargata anche al resto del Paese. Sono più i meridionali che emigrano dal Sud per andare a lavorare o a studiare al Centro-Nord e all’estero che gli stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali.
Negli ultimi anni il tema dell’accoglienza è rimasto colpevolmente slegato da quello del ripopolamento e dello sviluppo territoriale del Mezzogiorno. In un quadro drammatico, l’agenda politica ha penalizzato qualsiasi tentativo di programmazione, privilegiando anzi una narrazione svelta a produrre l’equazione tra rifugiati e costo sociale, tra immigrazione e minaccia per la società. Un cambio di prospettiva nasce proprio da questo punto: considerare gli stranieri che arrivano in Italia una risorsa e non un problema, soprattutto nelle aree marginali. Nell’ottica di un mutuo beneficio per i migranti e per le comunità locali, il primo passo da compiere è lo sradicamento di queste vicende da un sistema colpevolmente affezionato a una logica emergenziale. Dove tutto rischia di essere dettato dalle necessità imposte dagli umori del momento.
Bisogna guardare alla migrazione come fenomeno strutturale affinché il nostro entroterra diventi laboratorio di innovazione sociale per lo sviluppo del Paese. Donare nuove prospettive ai posti presuppone la capacità di riaffermare quel modello di società e di rinascita di un Sud svuotato scaturito dall’esperienza di Riace. Un sistema virtuoso di accoglienza e integrazione mirato alla costruzione di realtà nuove, vive, dinamiche. Un sistema capace di colmare un vuoto.
Utilizzare i bandi per le aree interne del Pnrr anche per l’accoglienza ai rifugiati significa, in questa fase, coniugare le ragioni dello sviluppo con il valore della solidarietà e rappresenta una base progettuale di ripartenza dei piccoli comuni dell’area appenninica. Si muove in questa direzione lo stanziamento di 500 milioni di euro per potenziare i servizi e le infrastrutture sociali di comunità nelle aree interne. Un intervento rivolto a promuovere soluzioni a problemi di disagio e fragilità sociale, aumentando il numero di destinatari dei servizi, la qualità dell’offerta o facilitando il collegamento e l’accessibilità ai territori in cui si trovano gli stessi servizi. A questi si è pensato di aggiungere un apposito criterio di premialità per gli interventi rivolti all’accoglienza di profughi in fuga dalle guerre.
Le città sono ormai luoghi inospitali: la pandemia, la crisi energetica, la mancanza di alloggi, il crescente costo della vita e il degrado in cui versano le periferie hanno innescato tensioni sociali difficilmente convertibili in un processo di integrazione strutturato.
Pur essendo le aree urbane dei grandi e medi centri abitati i punti privilegiati, la montagna è il secondo ambito territoriale di importanza per accoglienza. Il 30% circa dei migranti forzati ospitati a livello nazionale si trova infatti attualmente in aree appenniniche: i progetti SPRAR, cioè quelli portati avanti direttamente dalle amministrazioni pubbliche, sono infatti molto più numerosi nell’Appennino che altrove, grazie anche al contributo offerto negli ultimi anni da associazioni, parrocchie, ong e comuni, che hanno collaborato all’interno della cornice dei progetti di accoglienza.
Le politiche su cui investire sono dunque quelle in grado di favorire il pieno radicamento dei nuovi abitanti stranieri, dentro processi che favoriscano nel contempo la partecipazione e il protagonismo di comunità locali oggi spesso marginalizzate. Ma anche la messa in campo di percorsi formativi in grado di valorizzarne le competenze e le attitudini professionali, in linea con le vocazioni locali e i saperi delle aree interne.
Secondo la ricerca condotta da Dislivelli, i bisogni dei cittadini che abitano nei comuni montani di piccola dimensione possono essere integrati nelle attività di accoglienza in relazione alla realizzazione di nuovi servizi, al mantenimento delle strutture, allo sfruttamento di nuove risorse prima non riconosciute o allo sviluppo di attività di manutenzione ambientale. Tutto questo si può realizzare a patto però che vi sia un soggetto territoriale forte, che conosca il territorio ma che abbia anche una certa solidità culturale ed economica, in grado da poter sviluppare attività di lungo periodo.