Piazza Fontana. Il cuore di Milano bivacca alle plumbee pendici del cielo.
Avvolte in bandiere rosse, nel gelido pomeriggio di metà dicembre, le anime di sinistra grondano commozione. Il ricordo di una esplosione, 88 feriti, 17 vittime (di li’ a 77 ore circa sarebbero aumentate accogliendo un ferroviere, l’anarchico “Pino” Pinelli, fra i loro ranghi), un dolore lungo cinquant’anni esatti.
Era il 12 dicembre 1969, gli strascichi di un miracolo economico non governato dirottano il paese nel suo personale inferno pregno di depistaggi, ombre, ritagli di giornale, vergognosi silenzi istituzionali. Alle spalle del Duomo, nel laborioso salotto del capoluogo meneghino, sono le ore 16.37 di un venerdì come tanti, giorno di incontro e contrattazioni per gli agricoltori assiepati nella centralissima sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Un ordigno inaugura la strategia della tensione, un ordigno sospinge l’Italia nel decennio più lungo ed indecifrabile della propria storia. Le tensioni aumentano, la violenza assume la sostanza di un nuovo pane quotidiano. Lungo il corso degli anni ’70 sono centinaia le persone che pagheranno il prezzo più alto, verranno condannate al silenzio finale dall’onda lunga di stragi, scontri di piazza e attentati terroristici. Derive di un blocco d’ordine – volto a perlustrare ogni piega della sinistra extraparlamentare per cercare i colpevoli – conducono la mano delle indagini nelle ore che seguono da vicino la prima strage di Stato (la seconda se ci si sofferma sulle 11 vittime di Portella della Ginestra nel 1947, alba di sangue della nuova Repubblica), il prefetto di Milano difatti scrive testuali parole al Ministero degli Interni “Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste”. Inizia in questo modo il corso delle inchieste, in maniera torbida, deviando dolcemente i sospetti del consiglio dei ministri – fra le antenne e i rotocalchi troveranno ampio consenso le autorevoli voci di Restivo e Saragat – sull’azione di gruppi anarchici. Le indagini, ufficialmente rivolte a tutti i gruppi estremisti riveleranno tuttavia una notevole disparità di trattamento, risultando ben più stringenti sulle organizzazioni di sinistra (310 indagati appartengono infatti alla sinistra radicale, appena 57 alla destra). Il conto più salato penderà sul capo di un ferroviere, partigiano e anarchico: Giuseppe “Pino” Pinelli che, pur senza convalida dell’autorità giudiziaria, viene tratto in stato di fermo e trattenuto ben più del dovuto. Nella notte fra il 15 e il 16 dicembre Pinelli troverà la libertà estrema nel volo che dal quarto piano della Questura lo condurrà ad una bara zincata. Una morte, ancora oggi, avvolta nel mistero. Defenestrazione o suicidio?
Un presunto suicidio, del resto, per l’opinione pubblica pesa come una condanna e, col successivo arresto dell’anarchico Valpreda, conferisce mostruose tinte rosse alla tragedia. È il primo di tanti, innumerevoli depistaggi. Il sorriso menzognero della storia presto porterà a compimento il suo beffardo percorso. Un tragitto profondo, fra le radici dell’ordine costituito, verrà tracciato da dichiarazioni mendaci, bugie.
Colpevoli abbagli, tutto sommato umani, se si pensa all’indaffarato ma rassicurante atto di stabilire i connotati di una strage al volto di un nemico preciso, a quell’ideologia anarchica che per molti rappresenta un inconcepibile salto nel buio. Le inchieste procedono, altre vicende giungeranno per ritagliarsi i propri spazi, siamo nell’era delle pericolose ingerenze provenienti da oltre-atlantico, succubi del post primavera di Praga che relega la sinistra italiana – tradita nelle più intime speranze riposte nell’URSS – all’affannosa ricerca di una nuova sofferta identità. Si allargano i cordoli del registro degli indagati e la verità posa le sue ali sulle prime testimonianze, abilmente nascoste, che portano ad un ristabilito estremismo di destra. Sono Freda e Ventura, militanti di Ordine Nuovo, gli esecutori dell’attentato. È il battesimo del sangue per un gruppo eversivo “normalizzato” da un MSI che, dal 1968, orfano della moderazione di Arturo Michelini è ora condotto in maniera muscolare da Giorgio Almirante.
Il fiume impetuoso degli eventi consegnerà al cuore della nostra penisola altre stragi ancora, nuovi colpevoli silenzi verranno avvalorati dalla scia d’ombra e di interferenze che condurranno al patibolo il già martoriato cadavere della democrazia. Azioni e fisiologiche reazioni – negli “anta” di mezzo della Repubblica, dalla strategia della tensione agli anni di piombo – renderanno l’Italia un cimitero di croci, un violento e ideale campo di battaglia che accoglierà le processioni dei carnefici in doppiopetto, uomini della Prima Repubblica, tristemente devoti alla voce del verbo “destabilizzare”.