Milena Cicatiello pubblica il 6 Aprile 2022 “Le vite che non ho scelto”, Edizioni Piavani, il tema trattato nel suo libro è quello della violenza sulle donne. Le poesie che formano l’opera, permettono al lettore di empatizzare e comprendere il percorso di riabilitazione della protagonista dalla violenza subita; è possibile suddividere questa catarsi nelle sezioni in cui sono raggruppati i vari componimenti, concependoli come veri e propri stadi emotivi in cui si evolve il percorso: “Le vite che non ho scelto”, “Eclissi”, “Salvezza” infine “La vita che ho scelto”. I rimandi delle varie poesie sono densi di significato e ramificano la storia della protagonista: dalla ricerca vana delle figure genitoriali laddove nel nucleo familiare sia avvenuta la violenza stessa, che si fa intensa e viva nei flashback d’infanzia che emergono dai versi; fino al compimento dell’autodeterminazione che non lascia di certo spazio ad un lieto fine: la consapevolezza del proprio io, nella prima fase colpito, dilaniato dagli abusi e dalla conseguente autodistruzione della protagonista, per risollevare il fondo e risorgere. Vivendo la vita che abbia finalmente scelto.
Milena Cicatiello laureata in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Conseguendo il titolo di Avvocato nel 2021. Svolge prevalentemente la professione di giornalista collaborando con il periodico “Il Commendatore magazine”, l’emittente televisiva “Stile Tv” e la rivista scientifica “Centro Studi d’Europa”.
Nel 2020 pubblica la sua prima opera “Petali d’incoscienza” per Bertoni Editore; nello stesso anno è stata riconosciuta su Wikipoesia, l’enciclopedia web letteraria alternativa a Wikipedia, alla voce “poeti contemporanei”. Ideatrice della rassegna culturale “Maledetti Poeti”, nell’ambito della quale si terrà la prima edizione del “Festival della Poesia sociale”, che ha raccolto già il patrocinio di Wikipoesia, degli Istituti Culturali in Italia di Egitto, Francia e Spagna, e della Commissione Europea, rappresentanza in Italia.
Nella prima sezione omonima de “Le vite che non ho scelto”, si evince nei vari componenti una ricerca di catarsi da parte della protagonista: il proprio io devastato dalla violenza del padre, ricerca invano delle figure genitoriali latenti, nel mentre i versi delle varie poesie, raccontano l’incessante dolore degli abusi di una vita che non abbia scelto. In questo primo stadio emotivo, dove i segni di fragilità e di autodistruzione sono così evidenti: dove poter trovare l’ancora di salvezza dal precipizio? E soprattutto può un percorso del genere avvenire solo da un “io” così lacerato senza aiuti esterni?
Nella prima sezione, che dà anche il titolo al libro, non c’è via di scampo per le sofferenze della giovane protagonista, colpita da violenza nel suo stesso ambiente familiare. Credo sia la parte più intensa e struggente dell’intera opera. L’ordine cronologico della narrazione è volutamente “alterato”, poiché il mio intento era quello di creare una sovrapposizione tra due sequenze temporali, attraverso l’alternanza di flashback della sua infanzia, in cui la violenza è un ricordo vivo e nitido, e il racconto del presente, in cui la violenza è diventata una stagnante abitudine. Non c’è neanche lontanamente la speranza di potersi salvare, perché questa sezione è posta in apertura alla silloge, pertanto il suo contenuto si identifica con lo stadio embrionale di un percorso di riabilitazione che si protrarrà per diversi anni e che giungerà a compimento solo con l’ultima sezione, “La vita che ho scelto”. Diciamo pure che rappresenta una sorta di “sliding doors”, ossia cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stata l’evoluzione del personaggio nelle sezioni successive. In questo senso, le vite non scelte, che scandiscono il mal di vivere della protagonista del libro, non comprendono solo le vite che hanno generato la violenza, ma anche le “vite-conseguenza”, ossia l’amore che ha negato a se stessa e agli altri. Manca, in questa prima sezione, la rielaborazione di quanto accaduto, e manca, soprattutto, un atto di vera e propria dissociazione del proprio Io dalla violenza subita. Si passa, invece, dall’autocolpevolizzazione all’autodistruzione, dalla paura di somigliare alla violenza di cui è figlia all’incapacità di amare, tant’è vero che riconosce il vero amore in un gabbiano libero, ma non riesce a prendere il volo, perché le sue ali sono di cera come quelle di Icaro, e come quelle di Icaro si sciolgono al Sole. Nel mentre, s’ impone di non guardare alle sue miserie, costellando la sua vita di legami effimeri, presenze brevi e dipendenze, le quali spesso hanno natura affettiva o comportamentale, come quando ruba “l’amore all’amore”, intrufolandosi, come una ladra ,nelle vite degli altri, affamata di un affetto che non è mai destinato a lei. Si spegne a fuoco lento della sua vigliaccheria e della rassegnazione al proprio destino, preferendo, a una vita senza amore, una dignitosa morte in vita. Nel prosieguo della silloge, il suo status muterà radicalmente: il percorso di evasione dalle vite- prigione è lento, tortuoso, fatto di tentativi che il più delle volte si rivelano fallimentari, ma che pian piano la proiettano in una dimensione in cui potersi concepire padre e madre di se stessa. È quando rinunciamo all’idea che qualcuno debba salvarci, che ci salviamo davvero. Perché le vite non scelte sono dentro di noi e solo noi abbiamo il potere di abbandonarle, mettendoci al mondo. Non orfani, ma comunque soli, davanti alla nostra agognata verità: quella che rende liberi, finalmente, di scegliere la propria vita e vivere le proprie scelte.
Tra le varie poesie quelle legate alla condizione dell’autismo racchiudono una sensibilità e un’empatia, capaci di raccontare un aspetto autobiografico della tua vita. Nella condivisione del tempo vissuto con tuo fratello, cosa dell’autismo credi debba essere spiegato? Quali luoghi comuni, quali barriere culturali vanno debellate per comprendere davvero in maniera oggettiva e trasparente la condizione di chi ne è affetto?
Il primo luogo comune da debellare è senz’altro la convinzione, nell’opinione pubblica, che gli autistici siano esseri unici e speciali. Mi rendo conto di quanto questa affermazione possa suonare, di primo acchito, deludente e impopolare; pertanto proverò a spiegarmi meglio. Il concetto di unicità è un’etichetta che impropriamente appioppiamo a tutti coloro i quali non siano allineati a un prototipo prestabilito (quasi a volerci rassicurare, in questo modo, che non saremo mai contaminati da loro): ma si tratta di individui che, più semplicemente, sono diversi da noi. Dagli albori della civiltà sino all’era contemporanea, è sempre esistito, negli scambi culturali, nel raffronto tra popolazioni, nelle relazioni sociali e, di riflesso, nell’ordinamento giuridico, un rapporto norma- eccezione, dove la norma rappresenta la maggioranza e l’eccezione la minoranza. Ora, gli autistici, se considerati su un piano prettamente “soggettivo”, che è la dimensione del nostro essere e del nostro sentire, sono senz’altro unici e speciali, nella misura in cui lo sono anche i normodotati. Ognuno di noi è un universo a sé, inimitabile e irreplicabile. Se invece guardiamo alla questione in maniera “oggettiva”, che è quella che attiene alle caratteristiche psico-fisiche dei predetti soggetti, è innegabile che abbiamo a che fare con persone diverse da noi. L’accettazione della diversità è il primo passo per proteggerla, godersela, valorizzarla e trarne arricchimento. In assenza di accettazione , la diversità rischia di essere soltanto tollerata, e, dunque, “giustificata” , fintantoché rimane un fenomeno isolato e occasionale, che non ci riguardi personalmente. Unicità è una parola molto pericolosa, perché nasce da logiche di perbenismo, di compassione e di timore dell’altro, di ciò che non si conosce a fondo, relegandolo a individuo/cittadino di serie B. L’unicità divide. La diversità, invece, unisce. La condivisione del tempo vissuto con mio fratello, che è una figura marginale ma onnipresente nelle mie opere (anche nel primo libro ci sono liriche dedicate a lui), ha senz’altro plasmato il mio sentire poetico, oltre ad aver segnato profondamente la mia vita. E questo perché l’Io poeta si immedesima, in maniera spontanea, immediata ma totalizzante, nel soggetto autistico: ne percepisce il disagio esistenziale, ne condivide la condizione di angosciante alienazione ed emarginazione sociale, nonché l’incapacità di comunicare, che nella patologia richiamata si manifesta proprio col silenzio. Nell’intreccio di vite che non ha scelto, scandite dalla violenza e dal non amore, la protagonista reagisce, in un primo momento, percorrendo la strada che la conduce alla follia, alla dissociazione dal suo corpo e alla disgregazione del suo nome e della sua immagine: status sociale che le “ spetta per diritto divino”, come scrivo nella poesia “Appartenenza”, ma che ella rifiuta consapevolmente, per poter elemosinare, “con gli occhi del cane vagabondo, il suo padrone universale”. E si rifugia, infine, nell’autismo, perché, nella sua incapacità di intendere e di volere, l’autistico non è giudicabile e non è in grado di giudicare. In questa realtà parallela, la giovane donna si sottrae alle brutture di un mondo sporco che ha scoperto troppo presto, per non sentirsi giudicata e non giudicarsi a sua volta. Ma sconterà una pena lunga quanto una vita, condannata, per il solo fatto di essere venuta al mondo, a portare sulle spalle una croce pesante quanto le ali dell’ albatro di Baudelaire, che, se da un lato simboleggiano le doti del poeta, dall’altro ne costituiscono motivo di impaccio, poiché sono la causa dell’eterna incomprensione e della facile derisione cui il poeta è soggetto.
Quali sono i retaggi tossici, le idee retrograde e letali sulla violenza sulle donne che debbano essere smontate? Quando la società potrà davvero gettare le basi per combattere in maniera seria, unità e senza proclami istituzionali fatui dettati da reazioni emotive ai fatti di cronaca che si susseguono: questa piaga terribilmente attuale e presente?
È evidente che le istituzioni sono chiamate ad assumere un impegno più serio ed efficace sulle questioni di genere. Le quote rosa, le leggi sullo stalking, le disposizioni sul femminicidio, le giornate sulla memoria, possono essere considerati dei “palliativi”, ma non risolvono il problema alla radice. C’è un proliferare di iniziative altamente discutibili dal punto di vista tecnico e dei contenuti, il più delle volte hanno matrice mediatica e si risolvono, nella prassi, in un peggioramento della condizione femminile, ossia in forme sempre più accentuate di ghettizzazione e discriminazione; per non parlare delle disparità di trattamento, perché due giudici diversi, in caso di comportamenti criminosi analoghi, a fronte di un conflitto tra norme o di un’incertezza interpretativa, irrogheranno trattamenti sanzionatori diversi. Credo invece che, per contrastare veramente il fenomeno, occorrano poche leggi scritte bene, rispondenti ai principi di tipicità e tassatività della fattispecie penale, che contemplino misure concretamente esperibili e di più facile e immediata attuazione, garantendo cosi una tutela piena, effettiva e paritaria. Ritengo, inoltre, che, più che sulla repressione, bisognerebbe intervenire e puntare sulla prevenzione, ad esempio istituendo (come accade già in molti Paesi europei), presso le scuole, l’insegnamento alla educazione ai sentimenti e alla gestione delle emozioni. Favorire, nei percorsi scolastici che interessano gli anni della formazione, delle forme di collaborazione tra individui che siano improntate alla conoscenza e al rispetto dell’ altro, stanando ogni ipotetica evenienza di una malsana competizione. E non solo nelle relazioni uomo-donna, ma anche donna-donna. A mio avviso, sono da condannare tanto il femminismo quanto l’oscurantismo di quelle donne che affermano che una donna violentata “se l’ è cercata perché indossava un vestito troppo corto’. È triste da dire, ma le più fervide ostruzioniste all’emancipazione femminile sono proprio le donne.
La salvezza che non conosce un lieto fine, seppur l’autodeterminazione del proprio io sia avvenuta: la realtà che si palesa di fronte alla protagonista, nella vita che finalmente ha scelto, quale vaso di Pandora scoperchia?
“La vita che ho scelto”, quarto e ultimo stadio del percorso riabilitativo della protagonista, può senz’altro definirsi una “salvezza senza lieto fine” , nella misura in cui la libertà di autodeterminarsi, pienamente raggiunta nel concepirsi madre e padre di se stessa, ha un prezzo altissimo: è il prezzo di una vita devastata dalla violenza e dal terrore, della spensieratezza mancata, degli anni scivolati via, che nessuno potrà più restituirle; ed è il prezzo della scomposta rassegnazione che intorpidisce le corde dell’anima, della rinuncia, forzata e disumana, all’affetto genitoriale e del perenne senso di inadeguatezza che inquina anche il più genuino slancio di tenerezza proveniente dall’ esterno, pur quando il sentimento è ricambiato. Si sopravvive, ma il prezzo che si paga è altissimo. Tuttavia, sarà una vita costellata di infinite, nuove possibilità e di legami veri, i quali non hanno matrice biologica, eppure ci addomesticano senza fare male. I lacci rossi visibili in copertina non sono più la raffigurazione grafica del “vincolo di sangue”, ma finestre che affacciano sulla nostra libertà di legarci a qualcuno. Quando il farsi addomesticare è una consapevole e libera scelta, diventa l’unica scelta possibile: la nostra irrinunciabile, edificante verità. La vita che scegliamo è pur sempre una prigione, ma, essendo una prigione di sentimenti e contatti autentici, non c’è nessun altro posto in cui vorremmo stare.