“Ero diventata Premier”: la prima puntata della seconda parte del romanzo di Cecilia Alfier

Non sapevo dove fossi finita né perché, sapevo solo che dovevo scappare, in qualche modo. Avevo delle idee vaghe sul dove: era una stanza fredda e inospitale, piena di spifferi, forse degli anni Settanta, non di più, non sembrava un luogo reale, poteva essere un posto all’interno del mio cervello. Oppure ero lì per l’esame di Storia del Novecento. Essendo un corso sulla giustizia di transizione, forse era previsto che i partecipanti al corso affrontassero essi stessi una transizione. Ecco, pensai, il professore rinchiude gli studenti in una sorta di prigione e loro devono fuggire, utilizzando le informazioni acquisite durante il corso. Che figata d’esame! Challenge accepted! Credevo davvero, o almeno credetti per qualche notte a questa teoria assurda. Aprii gli occhi, c’era un’oscurità quasi totale. Col senno di poi non poteva essere il mio cervello quel posto, era troppo brutto, una costruzione fatiscente, degli anni che furono, che avrebbe bisogno di una sistemata. Nella mia stanza, la 11, passava aria fredda, anche se la finestra era chiusa. Luce elettrica filtrava da sotto la porta. L’altra fonte di luce era la luna, un sottile raggio di luna che passava dalla persiana, tirata giù. Mi accorsi di aver dormito, tanto. Avevo i segni della flebo sul braccio, ma adesso le mani erano libere. Mi avevano nutrito artificialmente mentre dormivo. Ero adagiata su un materasso ospedaliero, ergonomico, antidecubito, alimentato ad acqua. Il cavo di alimentazione usciva dalla porta e non ne vedevo la fine. Ciò significava che la porta non era del tutto chiusa, il che rendeva la mia fuga un po’ più facile. Potevo fuggire o da lì o dalla finestra, immediatamente dietro al letto, ma usare la finestra significava uscire di testa e sfracellarmi giù dal primo piano. La cosa non mi spaventava per nulla, perché pensavo che per superare la prova bastasse uscire dall’edificio. La seconda opzione era la porta, ma uscendo di lì mi sarei trovata nel corridoio, non fuori, e la prova non sarebbe stata superata. Inizialmente optai per la finestra. La parte di spazio fra la mia nuca e il davanzale (in una certa misura occupata dal termosifone), quella parte era la transizione che avrei dovuto affrontare. Ricordo che ogni oggetto nella stanza aveva un significato: la bottiglia d’acqua era la vita, il termosifone il calore, la finestra era libertà. Ma soprattutto, il presepe col bambino Gesù che avevo sul comodino era mio figlio e io dovevo raggiungerlo, per portarlo via con me, altrimenti non sarebbe mai nato.

Mi resi conto che avevo sete, non una sete normale, avevo la gola secca come se avessi trascorso quaranta giorni nel deserto. Ora capisco che quella sete era fra gli effetti collaterali dei psicofarmaci che mi davano, anche se in realtà era cominciata prima, ricordate quando avevo vuotato la bottiglia a casa, con mio padre che diceva di smetterla. Per prima cosa, dunque dovevo raggiungere l’acqua sul comodino. Senza camminare, ovviamente, dato che: 1) camminare non rientra nelle mie numerose capacità; 2) ero legata come un salame. Non fu possibile raggiungere l’acqua, nemmeno allungando un braccio. Urlai, nessuno rispose, mi tenni la sete. Avevo una cintura intorno alla vita, chiusa a doppia mandata, ma non mi sarei arresa tanto facilmente, dovevo tornare a casa. Era incredibile che i miei genitori mi avessero abbandonato lì, ma del resto, se quella davvero era una prova d’esame, non avevano avuto scelta. Non ero arrabbiata con loro. In fondo ero capitata in una mega escape room e io adoravo i giochi e i rompicapi. Urlai il nome di mio figlio non ancora concepito. per farmi forza. Riuscii a muovermi verso la finestra. 40 23 0 dissi, distintamente, avvicinandomi alla libertà. Era il codice della mia carta prepagata, ero convinta che la sequenza casuale di cifre avesse un significato profondo. Vi ho raccontato del quaranta. Era davvero la mia età mentale?

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