In molti guardano al periodo pandemico in corso come all’inizio di un’era delle pandemie. Ed è vero, ci sono molti elementi per pensarlo. Altrettanti e forse più sostanziosi, sono i motivi per pensare che questo sia l’inizio di un’epoca di Cura. Il dibattito pubblico che ha tenuto banco in questo ultimo anno ha messo in evidenza le carenze strutturali del nostro sistema: dal punto di vista ordinamentale, di distribuzione di competenze e risorse tra stato e regioni; dal punto di vista del funzionamento degli enti locali e dell’organizzazione dei territori; sul piano dell’inadeguatezza delle strutture a supporto dei servizi essenziali, istruzione, trasporti, sanità; nel conflitto tra economia e politica, tra lavoro e salute, tra profitto e diritti. Tra libertà personali e responsabilità collettiva; tra l’isolamento e, appunto, la Cura della Comunità.
Uno degli aspetti più determinanti nella diffusione del contagio da Covid19 e nell’impatto del virus sulle comunità territoriali è stato il modo in cui queste sono organizzate e pensate. E’ facile immaginare le città come monoliti perfetti a cui dare un Sindaco, un funzionamento omogeneo attraverso una urbanistica, intesa come organizzazione degli spazi, dei servizi da erogare nel limite delle risorse che si hanno in cassa aspettando che ne arrivino altre dal governo, magari un paio di opere attrattive per i turisti, che facciano bene al commercio locale e tutto il resto è amministrazione dell’ordinario, con quei pochi strumenti che si hanno a disposizione per accontentarsi di gestire il presente.
Ma tra le crepe di questo monolite, come nel caso della nostra Salerno, oltre una superficie di mera gestione delle cose, si intravede un altro strato di protezione per le persone, quello della Comunità in grado di creare percorsi di Cura vicendevoli. Le nostre armi segrete contro pandemie e lacerazioni globali, contro le asimmetrie del sistema, potrebbero essere proprio queste: comunità che si riscoprono capaci di ri-organizzarsi costruendo prevenzione, cura e riabilitazione per tutti, a partire dal più piccolo dei quartieri delle nostre città.
All’inizio di questo anno orribile, ci veniva da chiedere un immediato ritorno alla normalità, pian piano ci siamo resi conto che proprio quella normalità era sbagliata e che ci aveva portato a difenderci dalla malattia senza adeguati anticorpi. Ad un anno di distanza sembra paventarsi un timido tentativo di rafforzamento dei territori, un ritorno dall’universale al particolare, dal piano nazionale (che, per dirne una, ha prodotto anni di de-finanziamento della sanità pubblica) al piano municipale. Si intravedono segnali in questa direzione dai discorsi di Speranza e Draghi che hanno parlato di una ‘medicina territoriale’ al momento dell’insediamento del nuovo governo, e nel regolamento del Recovery Plan che prevederà un ruolo da protagonisti per Sindaci e Comuni nella progettazione della ‘ricostruzione’. Che si stia aprendo una fase di reale ristrutturazione per i nostri territori? Certo, ci sarà da vedere quanto saranno pronti gli apparati amministrativi degli enti locali a progettare, realizzare e rendicontare; ci sarà da capire se la lunga mano del malaffare e del profitto avrà lo stesso spazio avuto nelle altre ‘ricostruzioni’ che hanno interessato il nostro Paese in passato (vedi terremoto dell’Irpinia nell’80. Abruzzo 2009); ci sarà da vedere se a questo movimento ‘basso’ corrisponderà una concreta azione di supporto da parte dello Stato. Quel che è sicuro è che questa sia la fase storica più adatta a porre basi solide per cambiamenti storici. Come approfittarne?
Le relazioni umane e sociali, le modalità di organizzazione della coesistenza tra le persone negli spazi urbani. Sono queste le due direttrici che conducono la nostra riflessione. L’isolamento forzato ci ha portato a rivalutare l’importanza della vita in comunità e, di conseguenza, a soffermarci su quanto questa abbia bisogno di essere pianificata e organizzata con criterio. Uno su tutti, il criterio della lungimiranza. Enti locali in grado di organizzare le micro-comunità di quartiere e intere aree urbane, sono poi pronte a far fronte a problemi endemici, come povertà, dispersione scolastica, disuguaglianze e crisi sociali, ma anche ad emergenze come catastrofi naturali ed epidemie. La prossima, dunque, potrebbe essere l’epoca della Cura. Ma per entrarci a pieno titolo abbiamo innanzitutto bisogno di una politica di Prossimità, che si eserciti tramite un multiplo movimento di avvicinamento: avvicinamento delle Istituzioni verso le persone, delle persone verso la Politica e delle persone tra di loro. Gli attori della Prossimità, e quindi della Cura, sono tanti. In primis ci sono le Istituzioni che devono favorire e sostenere con spazi e risorse l’incontro tra le persone e i meccanismi di cura reciproca e mutuo aiuto che tra queste si innescano.
Pensiamo, ad esempio, alla cosiddetta ‘Zona Orientale’ di Salerno, che si estende in lunghezza, con una alta densità popolosa, alti tassi di povertà (anche educativa) e disoccupazione, a fatica collegata con il resto della città, in cui si intravedono pochi punti di riferimento per le persone. Va ancora peggio se pensiamo ai rioni collinari, Giovi da un lato e Matierno-Ogliara- Pastorano- Rufoli-Cappelle dall’altro. In queste aree appena citate, invece di far venir meno servizi come quello di trasporto o come gli sportelli comunali che sistematicamente sono stati chiusi (vedi Mariconda e Fratte) occorrerebbe un intervento massiccio e ben pianificato di creazione di un welfare di comunità. Creare prossimità e, di conseguenza, benessere attraverso l’azione istituzionale non significherebbe solo creare servizi, intendendo il cittadino come mero fruitore di prestazioni, ma metterlo al centro di un processo di emersione dalla sfera dell’isolamento, dell’individualismo e della solitudine. Una delle strade percorribili è quella di creare precisi riferimenti di quartiere, per i quali avremmo anche delle strutture già esistenti. Il centro sociale ‘’Cantarella’’ di Pastena, ad esempio, potrebbe essere al centro di un’opera del genere. Biblioteche di quartiere, centri d’ascolto, spazi accessibili ad attività di gruppo, associative e formative (ad oggi i costi di Salerno Solidale per il fitto degli spazi del Cantarella non sono sostenibili), grande centralità e nuovo slancio al ruolo dei servizi sociali, l’introduzione di una figura strategica come quella dell’animatore sociale.
E non solo, partendo da una sperimentazione sul poli-ambulatorio di Pastena, potrebbe essere fondamentale lavorare alla creazione delle Case della Salute. Previste dai decreti ministeriali del 2007 prima, e del 2012 poi, che favoriscono l’attuazione di una riorganizzazione della sanità territoriale in centri poli-funzionali in cui il cittadino può incontrare 24h e 7/7 il medico generale, lo specializzato, il medico d’emergenza. In questo modo saremmo in grado di accorciare le distanze che di solito ci sono per l’accesso alle cure e creare un rapporto più stretto e reciproco tra pazienti e sanità, garantendo percorsi di prevenzione e di screening delle condizioni della popolazione. In questo modo avremmo dati disgregati per quartiere (che ci avrebbero aiutato molto nella gestione della pandemia) e saremmo probabilmente in grado di sostenere l’assistenza domiciliare alle varie fragilità. Pensate, seguendo alla lettera i decreti, Salerno avrebbe 5 Case della Salute sparse sul territorio. La presenza di psicologi, educatori ed operatori socio-sanitari, inoltre, permetterebbe un altro tipo di rapporto col benessere psico-fisico, in un territorio in cui l’aiuto dello psicologo o dello psichiatra è ancora un tabù.
Se questo è il primo movimento di avvicinamento Istituzione-persone, ne conseguirebbe un coinvolgimento di queste ultime nell’azione coordinata promossa dall’Amministrazione, in particolar modo dall’Assessorato alle Politiche Sociali. Si avrebbe, quindi, un coinvolgimento degli attori della società civile nella pianificazione e nell’attuazione di queste politiche. Associazioni culturali, organizzazioni di volontariato laiche e parrocchiali, associazioni di promozione sociale, cooperative, comunità di recupero per dipendenze o disagio ed il terzo settore tutto, con un notevole beneficio sul piano occupazionale per operatori e professionisti del settore, verrebbero inseriti, con un approccio integrato, che vedrebbe coinvolte anche le stesse forze dell’ordine locali e le ASL, nella creazione di percorsi di comunità e dei centri di prossimità nei quartieri. Sarebbe un primo passo importante, considerando che attualmente azioni di questo tipo sono solo abbozzate dall’amministrazione, che affida al privato cittadino il lavoro solidale e di cooperazione sociale. Tutto quel mondo impegnato quotidianamente nell’assistenza agli indigenti, con banchi alimentari, CAAF, unità di strada e attività di sostegno all’infanzia, ad anziani e nelle questioni di genere e di discriminazione sarebbe direttamente integrato nelle decisioni che riguardano la comunità. Si darebbe così vita al terzo e più importante tra i movimenti di avvicinamento, quello tra persone. Il movimento in cui si vede realizzata la comunità e in cui le persone fanno proprio l’esercizio della cura, verso sé stessi, verso gli altri e verso la propria città ed il proprio quartiere. Condomini solidali verso gli inquilini più fragili che integrano persone nuove e diverse, orti urbani e spazi di quartiere gestiti da gruppi di cittadini abitanti della zona. Opere di mutuo-aiuto, educative o a sostegno dei commercianti e degli artigiani locali. Sono solo alcune delle azioni che si potrebbero mettere in piedi in comunità solide capaci di affrontare anche il peggiore dei virus. Capaci di accogliere, prevenire, curare, riabilitare e re-inserire nella società.
E’ questa l’epoca della Cura che potrebbe aprirsi, servirà lucidità per fare i conti col passato e visione per investire nel futuro.
“L’etica della cura universale è l’antidoto alla spirale di incuria che il sistema attuale mostra di avere per le persone e il pianeta. Gli autori e le autrici ci dicono che la cura non è un bene: è una pratica, un valore fondamentale e un principio organizzativo sulla base del quale possono e devono sorgere nuove politiche’’
Questo il commento di Naomi Klein sul ‘’Manifesto della cura’’ pubblicato dal Care Collective a Febbraio 2021. Il Care Collective nasce nel 2017 come gruppo di studio orientato a comprendere e affrontare le diverse forme di crisi del concetto di cura.
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Matteo Zagaria, classe ’93. Nato e cresciuto a Salerno, ma ha dato anche un’occhiata in giro per il mondo. Attivista. Fin dal Liceo nel mondo della rappresentanza. Consigliere degli Studenti all’Università di Salerno dal 2015 al 2017, dove studia Scienze dell’Amministrazione e dell’Organizzazione. Tra i fondatori del Circolo Arci Marea e della Brigata – Unità di Strada, gruppo solidale che sostiene chi vive ai margini della società. Nella direzione artistica del Limen Salerno Festival. Attualmente portavoce del movimento Coraggio Salerno.
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