“Una mattina mi son svegliato.. “
Si comincia sempre dal risveglio, ogni mattino cova in sé una sentenza: spalancare gli occhi, vivere, rinascere. Era mercoledì ed era l’otto settembre 1943. Scadevano così i “55 giorni” dalla sfiducia a Mussolini, preludio di una rovinosa caduta per il fascismo. La firma dell’armistizio fu una tappa dolorosa, umiliante ma doverosa. La caoticità delle conseguenze era rischio calcolato ma di imprevedibile durezza: l’avanzata dei nuovi alleati, la furia dei vecchi camerati. Nel mezzo il popolo italiano, diviso da vecchi rancori, crivellato dal fuoco amico e nemico, indebolito dalla fame più nera. Quel mattino ebbe il suono sprimacciato della consapevolezza, trovarsi catapultati in un mondo fino ad allora sconosciuto: da un lato la lieve ebbrezza che conferiva l’aver “concluso” una guerra deponendo una dittatura, dall’altro l’Operazione Alarico che tendeva a occupare e distruggere ciò che rimaneva in piedi.
“Oh bella ciao, bella ciao. Bella ciao, ciao, ciao”.
Non resta che sciogliere gli arti dal torpore, tirare le redini dell’esistenza e andare avanti. Il viaggio da affrontare è lungo, frastagliato, arduo. Bisogna indossare scarpe pesanti e coscienza pura per dirigersi verso il sole della libertà. Scongiurare il lamento delle antiaeree, evitare il lugubre rintocco dei mortai, percorrere l’arida apnea di strade che si sfilacciano, incamminarsi per sentieri (un tempo tricolori in marcia, profili dell’adone di Predappio, gigantesche “M” affisse per ogni facciata) trapuntati di silenzi e macerie. La sconfitta dell’umanità è ovunque, l’Italia in brandelli si riscopre satura di iperboli ventennali e il futuro è tutto da scrivere, da contendere. Necessario partire confutando due falsi storici – tanto doveroso quanto banale farlo oggi, nel 2020 – “antifascismo” e “comunismo” non sono sinonimi, “destra” e “fascismo” nemmeno. Fra le fila degli antifascisti ci sono innumerevoli anime: repubblicane, azioniste, liberali, socialiste (massimalisti e riformisti), popolari, democristiane, anarchiche, comuniste. Il sentimento comune consiste nel voler debellare il regime fascista e supera, in nome della sospirata libertà, le molteplici frizioni derivanti dal contrasto degli ideali. Le disomogeneità dei fronti popolari, successivamente, verranno a galla con più insistenza. Il solco tracciato dalle domande annovererà in sé risposte distanti ed inconciliabili: cosa ne sarà del “dopo”? Alzare la posta, proseguire la rivoluzione issando la bandiera proletaria sulle soglie del nuovo mondo? Ristabilire lo status quo ante affidandosi alle mani di una classe liberale ormai morente? Rinviare il dibattito è l’unico imperativo da tenere in considerazione, del resto è su un’opposizione frammentaria – la scissione aventiniana fa scuola – che Mussolini forgiò il suo vertiginoso consenso.
“Una mattina, mi son svegliato ed ho trovato l’invasor”.
L’invasore è uno e trino. Sono invasori i nazisti, sono invasori gli alleati, sono invasori i fascisti che si ricostituiranno nella Repubblica Sociale Italiana. Mentre Mussolini – suo malgrado -ripercorre l’inquieta parabola collaborazionista di Petain, la diffidenza è sensazione riesumata che aleggia per ogni via. Ha, però, un forte richiamo alla speranza il 9 settembre ’43, c’è volontà di azione, bisogna reagire. Le forze avverse al regime – fino a quel momento clandestine, ora rese legittime dal corso degli eventi – decidono di riunirsi nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Questa la mozione costitutiva, l’incipit di una parabola colma di sacrifici, irrorata da copiosi ruscelli di sangue: “Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”.
“… O partigiano, portami via, ché mi sento di morir… “
I soprusi si moltiplicano, accompagnati da una foga animalesca. Le vendette incrociate di nazisti e repubblichini, giorno per giorno sempre più braccati, diventano se possibile ancor più sanguinose. La battaglia si sposta, senza riposo, dalle pianure ai monti. L’insurrezione contro i nazifascisti è disperata, incosciente, eroica, risolutiva. Migliaia di vite, equipaggiate alla buona, si destano imbracciando il fucile. Risuona possente un verbo all’infinito, estrema sintesi di un approccio dell’umana specie alle difficoltà: resistere. Ad ogni azione partigiana le rappresaglie nazifasciste non si lasciano attendere: violentate le donne, incendiate le abitazioni, fucilati in massa i ribelli. L’avvenimento simbolo è l’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo ’44, l’uccisione di 335 italiani – in risposta a un attentato compiuto dai partigiani in via Rasella a Roma – rappresenta in toto l’orrore della stagione più buia del ‘900. Un’occupazione – sostenuta da un corposo manipolo di camicie nere – lunga quasi due anni.
Nel frattempo il Regio Esercito è allo sbando, dalla sera alla mattina orfano di comunicazioni ufficiali, in preda all’individualismo delle sue componenti. C’è chi si affianca agli alleati e di conseguenza ai partigiani, chi aderisce alla RSI, chi diserta perché stanco di combattere, chi respinge la chiamata dei repubblichini pagando l’estrema sanzione: il plotone. Si concretizza un vuoto di potere non indifferente, fra Augusta e Salò impera il fragore delle cannonate e il farraginoso tepore del sangue. Il nemico è asserragliato nel salotto produttivo di casa mentre re Vittorio Emanuele III – sciaboletta – ripara a Brindisi (per mantenere la linea dinastica o per viltà, a noi non è dato saperlo). La Storia, del resto, tutto può e tutto ricorda ma non è in grado di scandagliare l’animo umano.
“… E se io muoio da partigiano tu mi devi seppellir, seppellire lassù in montagna sotto l’ombra di un bel fior…”
La morte è una dolce compagna, il prezzo da pagare per garantire la rinascita collettiva. Il sacrificio ultimo – disinteressato – muove la penna dei compagni impegnati lassù, sui monti. “Bella ciao”, in fondo, è un commiato. Un addio tenero, triste ma carico di coraggio. Il saluto di chi si prepara a sostenere lo sguardo della nera signora in nome di una libertà offerta al prossimo. Liberazione che si realizzerà dopo tanta sofferenza, tanta polvere da sparo e tanto ardore. L’avanzata degli angloamericani prosegue, da sud verso nord, e costringe nazisti e fascisti alla ritirata. La sponda dei partigiani è di fondamentale importanza, utilissima nel fiaccare le velleità degli eserciti nemici in rotta.
“… E le genti che passeranno ti diranno: oh, che bel fior! È questo il fiore del partigiano morto per la libertà”.
Gli sforzi profusi in nome della resistenza verranno ricompensati nell’aprile del ’45, nel mezzo le migliaia di volti (trasformati in freddi numeri dalla storiografia) che hanno conosciuto la morte per mano della baionetta nemica. Morti che – tutti noi, nessuno escluso – portiamo nel corredo genetico e siamo obbligati a ricordare. La liberazione dall’occupazione nazifascista ha bruscamente risvegliato un Paese che – in meno di mezzo secolo – ha visto aumentare industrializzazione e distanze sociali, i vezzi della borghesia, le pretese di un impero cartonato (spersonalizzanti presenze alle adunanze, fedi nuziali donate alla patria) oltre che l’avvento di due conflitti mondiali. Sullo sfondo la necessità di ricostruire, ricostruirsi e guardare a un avvenire più luminoso. Riscoprirsi italiani, coltivare la nobile arte dell’arrangiarsi, imparare a camminare sulle rovine e sollevare il capo per scorgere un altrove di speranza.
La storia, però, ha in serbo nuove distorsioni della realtà. Il repulisti promesso a conflitto ultimato, destinato agli apparati dello Stato, si infrangerà contro sporadiche perdite di memoria. I reduci del fascismo – comprensivi di coloro che mai l’avevano ripudiato – verranno reintegrati all’interno degli ingranaggi statali. Verrà costituito, nel giorno di Santo Stefano del 1946, il Movimento Sociale Italiano, un partito plasmato a immagine e somiglianza dei reduci della Repubblica di Salò: da Graziani a Borghese, da Rauti ad Almirante. Un lunghissimo bivacco per le aule del XX secolo – e ancora emette i suoi rantoli totalitari – coprendo le trame di una destra eversiva che, a tinte sempre più fosche, comparirà nella lunga traversata della nostra Repubblica. Un tragitto violento e pieno di contraddizioni, depistaggi, sommosse e delitti. Il sentire destrorso, del resto, è dettato da due leggi non scritte, bensì digrignate: oltraggiare la memoria della resistenza, omaggiare la figura di un dittatore.
La fiamma tricolore, il culto del duce e il mito di Roma antica: da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni. Perché si, (stando alla propaganda muraria) loro “possono guardarti negli occhi” senza provare vergogna alcuna. Il 25 aprile è diventato, pertanto, la data più odiata e temuta da parte dei movimenti che orbitano all’estrema destra dello scacchiere. Una festività laica che per numerosi giocolieri parlamentari è inappropriata ed inutile, sicuramente divisiva.
Divisiva – appunto – fra chi è fascista e chi non lo è.