Il primo mattino di gennaio, quello in cui la realtà ti scaglia in faccia la più gelida delle albe. Sigarette, pensiline stracolme, distese di trolley che ruminano l’asfalto, vagoni e coincidenze. Emorragie di gente, gli armadi sono voragini. Il calendario del meridione – santi e proverbi un tempo, ora loghi di farmacie – si nutre di sospirate festività. L’orologio, però, rintocca di continue partenze.
Il Corriere della Sera, nel settembre del 1972, titolava:”Il divario fra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020“.
Cosa immaginava del suo futuro l’Italia degli anni ’70 e, soprattutto, cosa ha seminato affinché qualcosa cambiasse? Incolmabili le divisioni passate alla storia, i rancori.
Totalmente sballata ogni pianificazione di sviluppo, se poi basa le fondamenta su fiducie malriposte, sul sotterfugio, sulla corruzione. Uno stillicidio, un processo osmotico di donne e uomini da sud verso nord, mentre flussi di fondi – destinati alle eterne incompiute – venivano ritoccati verso l’alto per poi essere, amabilmente, spartiti.
Tanti gli avamposti di un vuoto a rendere definito meridione, fra questi: Salerno. Da un po’ di anni, infatti, il vento che dalla Valle dell’Irno scende verso il mare ha invertito la sua rotta. Ora, salpa da un mare di promesse per approdare ad un entroterra incerto.
Eppure, nella lunga notte che intervalla il 31 dicembre e il 1° gennaio, i discorsi del sindaco Napoli da Piazza Amendola (salotto del capodanno di città) – forse inebriati dalla multiforme marea delle luci, magari dal calice di bianco brindato alla salute del sovrano di Palazzo Santa Lucia – hanno dimenticato di posarsi al suolo, ai diritti fondamentali dei cittadini, alle criticità reali di un territorio vittima delle sue sterminate debolezze.
Nello specifico, le falle strutturali dell’amministrazione cittadina – abile a deviare le attenzioni, ma sostanzialmente di facciata – sono tangibilmente riconducibili al manto stradale dei rioni collinari, all’illuminazione che, se per il centro è considerata un’accattivante cartolina, altrove diventa un optional. Del resto, quando dalle arterie del centro ci si dirige verso le periferie, è facile imbattersi in buche che – commosse – ricordano ancora il “Discorso alla luna” di Giovanni XXIII.
In realtà, pur nelle sue gravità, non è di questo che vorremmo occuparci, neppure del fatto che lo stesso Noè – date le piogge battenti e una rete fognaria che definire inadatta è il più prezioso degli eufemismi – ogni 3 mesi, preso dall’ansia, radunerebbe gli animali per coppia: due piccioni, due gabbiani, due topi, due cinghiali, due volpi, due “scerpole”.
La provincia di Salerno – l’intera Campania del resto – altro non è che un latifondo in costante tensione, una terra che trema e ricuce gli strappi, semplicemente, svuotandosi.
La Sanità rantola, tenuta in vita dalla dedizione dei singoli, eccellenze professionali che – nella burrasca – ne governano il timone con fermezza. Una Sanità in cui il ritmo circadiano è dettato dai giri di poltrone, sempiterni mezzi politici calibrati per tastare il polso di un “do ut des” che si tramuta in consenso elettorale. Intanto, per centinaia di famiglie, l’assistenza di base assume i tratti di una Chimera. Il personale socio-sanitario fa i conti, giorno per giorno, con le tracce di un degrado che spilla dai soffitti. L’ostacolo quotidiano assume le sembianze dell’apparato di ventilazione malfunzionante, il freddo delle corsie riscaldate a stento, i volti di sorda sofferenza disseminati nelle agognate (titanici i tempi di prenotazione) sale d’attesa. Uomini, donne, pazienti impegnati in giornaliere battaglie per la sopravvivenza. Arduo gestire impazienti disperazioni – talvolta violente – alle porte di un Pronto Soccorso.
Aria di frontiera quella che si assapora per le strade, mentre le corriere transitano a singhiozzo, in alcuni quartieri gli interessi individuali vengono regolamentati con la legge del taglione. La litoranea, mutilata, resta terra di nessuno. Si vivono gli strascichi di un abbandono sommerso, forzatamente metabolizzato. Il centro cittadino perde, mese dopo mese, i propri riferimenti commerciali. Marciscono, una dopo l’altra, le insegne dei negozi storici. La zona industriale, un tempo brulicante, è oggi semideserta – basti considerare che la “Centrale del Latte di Salerno”, epicentro del tessuto economico salernitano, dopo 90 anni, si è lasciata inglobare da chi possiede la sede fiscale in bacini più dinamici – poco manca, a voler sdrammatizzare, che dalle parti di via Wenner transitino i cespugli rotolanti in stile “Willy il coyote e Beep Beep”.
Floridi, tuttavia, sorgono quei centri commerciali abili a captare la noia trincerata nelle apparenze di un commercio fugace, spicciolo. Miriadi di supermercati fatturano, scompaiono e di nuovo fatturano sotto altra sigla. Pienissimi di scaffali, col personale sottopagato e i padiglioni sempre affollati.
Difficile non accorgersi del vuoto di vedute, delle lacune programmatiche di una zolla di terra che, affacciandosi sul Mediterraneo, resta adagiata nelle sue derive. L’opinione pubblica, salvo rare circostanze, tende per vocazione verso il frivolo. L’incedere dei giorni è un pendolo che oscilla fra il menefreghismo e il sopruso, corsie preferenziali e diritti negati. Un sistema che, dall’informazione all’immagine che offre di se, sibila e striscia attraverso uno sciame di chiacchiere – con le redini del potere più o meno strette, a seconda dei casi – atte a magnificare (o distruggere a priori) più che a costruire. I tavoli dell’opposizione, assiepati di provetti PR, si crogiolano fra dirette Facebook e giocate a carte fini a se stesse, e se – di rado – sfiorano tematiche probanti, è solo per foraggiare l’ego smisurato che aumenta al tintinnar dei “like”.
In alto i calici, dunque, mentre l’astronave leva l’ancora, l’ossigeno è merce rara, il dialogo latita, le alternative scarseggiano, le valigie si riempiono e il cuore delle madri – messo a dura prova da saluti sempre più lunghi – poggia le radici verso Nord.