In un quadro di generale schizofrenia politica in Europa, il caso delle alleanze del Movimento 5 Stelle all’interno dell’Europarlamento assume un valore emblematico. Prima il flirt con i gilet gialli, poi il tentativo di tessere una tela, in assenza di precise analogie sul piano politico, con una serie di movimenti sorti in giro per il continente. Orfani in Europa dell’alleato della prima ora, l’Ukip di quel Nigel Farage promotore indiscusso di un processo che ha condotto alla Brexit, i pentastellati si sono ritrovati smarriti in mezzo alla competizione delle tradizionali famiglie politiche del vecchio continente, destinati a rabberciare uno schieramento pur di costituire un gruppo vero e proprio e di non finire nel misto. Un’eventualità, quest’ultima, che rischia di consegnare la prima forza delle ultime elezioni politiche italiane a una sorta d’irrilevanza all’interno dello scacchiere europeo. Rifiutati dai Verdi, derisi dai liberali dell’Alde, cui la richiesta di alleanza da parte del Movimento rivelò a suo tempo l’incomprensibile ricerca di una collocazione più strumentale al momento che a una consapevolezza identitaria, i contatti allacciati da Di Maio riguardano un gruppuscolo di partiti tutti indistintamente ancora relegati ai margini della vita politica nel paese d’appartenenza. Alcuni inchiodati a percentuali inconsistenti, altri solo parzialmente in ascesa. E in larga parte incompatibili, almeno sulla carta, con le posizioni del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma in mancanza di alternative, questa rosa di partiti ha costituito un prezioso ripiego, tanto da indurre il capo politico del M5S a sottoscrivere un manifesto comune ancora in bilico tra parole di destra, con una precisa idea di società-nazione e uno squillante elogio della ‘sovranità’, e un vago programma che promuove la lotta all’establishment, il salario minimo europeo. Non si tratta ancora di uno schieramento definitivo, considerando che all’appello manca ancora qualche accorrente per raggiungere la soglia utile di sette partiti radicati in sette paesi differenti, valida per garantirsi un tetto comune. Il più vicino ai pentastellati, per affinità programmatica, è senza dubbio Zivi Zid, il movimento croato nato per ostacolare le forze dell’ordine nell’esecuzione di sfratti e pignoramenti. Alle scorse presidenziali ha raccolto circa il 16% dei voti e i suoi leader si dichiarano ambientalisti e anticorruzione, oltre che strenui oppositori dell’entrata nell’Euro della Croazia, prevista per il 2020. Poi c’è l’ultradestra dei polacchi di Kukiz, partito personale di Pawel Kukiz, personaggio bizzarro e controverso la cui carriera musicale (ha inciso quattro album, uno dal titolo ‘Forza e onore’) è stata accantonata a beneficio di quella politica. Alle ultimi presidenziali ha collezionato circa quattro milioni di voti cavalcando cavalli di battaglia già fortemente popolari nei ranghi della Polonia illiberale: contrari all’aborto e ai diritti per gli omosessuali, ferocemente ostili a qualsiasi forma di immigrazione. I finlandesi di Liike Nyt, invece, nati da una costola del principale partito di centrodestra del paese, non vantano ancora alcuna partecipazione a competizioni elettorali. L’iperliberismo, associato a una fuoriuscita dal tradizionale schema partitico che regola l’organizzazione della politica, tanto da sfociare in una passione dirompente per la democrazia diretta, si configura alla base di ogni loro indirizzo. In fondo alla lista i greci di Akkel, il partito greco della zootecnia difficilmente rilevato dai sondaggi, e gli estoni di Richness of life, pronti ad ammettere la loro verginità: << siamo nati in autunno, non abbiamo ancora un seggio. >> Il tratto in comune con ognuna di queste formazioni è, ancora una volta, l’assenza assoluta di una classe politica. La natura dell’accozzaglia con cui il Movimento tenta l’aggancio sta passando tuttavia in secondo piano nelle attenzioni degli osservatori, concentrati a rilevare il continuo scontro all’interno del governo tra due forze che, decise a occupare l’intero spazio per racimolare voti su fronti opposti, si affannano nel mostrarsi antitetiche, nella speranza, non sempre vana, che l’elettore ignori la composizione dell’attuale maggioranza di governo. La campagna elettorale è il momento in cui si mostrano al meglio le culture politiche e chi le rappresenta. E i 5 stelle, nell’illusione di chi seguita a dichiararsi post-ideologico, tentano di smarcarsi da Salvini dopo averlo assecondato nelle scelte di governo, rispolverando improvvisamente parole d’ordine proprie alla sinistra. Un nuovo ribaltone dettato dal momento, un distanziamento dalla Lega incentivato dai sondaggi. E una scelta, quella degli alleati in campo europeo, figlia di un’ideologia usa e getta, dissimile dalle scorse europee solo per il mancato ricorso agli orientamenti della base. Già nell’uscente Parlamento Europeo sono confluiti, per effetto del voto degli iscritti, nel gruppo che racchiude movimenti schierati a destra: oltre al già citato Ukip, i famigerati tedeschi dell’Afd (Alternative for Deutschland, ora alleati di Salvini), i lituani di Ordine e Giustizia, i polacchi di Karwik e il Partito ceco dei Cittadini Liberi. Tutti gruppi di estrema destra che non hanno esitato, nel corso del tempo, a negare l’olocausto. Una contraddizione eclatante considerando l’atteggiamento di Di Maio delle ultime settimane, propenso ad attaccare in più occasioni Salvini proprio su quelle che, nel Movimento, percepiscono come pericolose posizioni estremiste.