Andrea Siniscalchi Montereale pubblica “Scene di Vita Quotidiana-Toxic Ediction”, lavoro che segue e si lega alla prima raccolta di poesie “Scene di Vita Quotidiana”. Lo sguardo dell’alter ego di Andrea, Kenji, nella prima raccolta trasfigura la realtà per mezzo delle sue imprese quotidiane; lascia ora spazio nella “Toxic Ediction” ad una nuova percezione della vita: un processo di disincanto tossico, figlio di un conflitto interno e della realtà esterna che porta ad una visione di disillusione. Andrea conosce Milano lavorativamente come professore e come uomo. La scrittura rimane invece quella di sempre: un borderline tra poesia e prosa fortemente dissacrante. Capace di raccontarci dell’esperienza milanese per poi ritornare con flashback all’esperienza della prima raccolta “kenjiana”.
Andrea Siniscalchi Montereale nasce a Battipaglia nel 1988, professore e scrittore, laureato in filologia moderna, pubblica la sua prima raccolta adolescenziale titolo “Kain è idolatrato” (lulu.Com – luglio 2009), in collaborazione con il poeta-musicista Giovanni Carbone. Con lo stesso pubblica la seconda raccolta di poesie “Che Icaro tocchi il sole” (CSA Editrice Gennaio 2012). Nello stesso anno con la poesia “Montagne innevate” ottiene il secondo posto alla terza edizione del “Premio Ripa”; con la lirica “Le chiavi dell’arcobaleno” ottiene il quarto posto al premio “Auletta Terra Nostra”. Nell’aprile del 2015, quattro sue liriche saranno pubblicate nell’antologia “Tramontare dentro lo Screensaver orange and yellow di Mark Rothko. 18 poeti dal web”, a cura della poetessa svizzera P. Schneider. Pubblica la sua prima opera “matura” nell’aprile 2018 dal titolo “ Scene di vita quotidiana” (una produzione Avanguardia Cilentana), con la quale vince il quarto posto e il premio della critica al “Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti 2018”. Nell’agosto del 2021 pubblica “Scene di Vita Quotidiana-Toxic Ediction”.
Nella tua prima raccolta di “Scene di Vita Quotidiana” ripercorri le tue fasi di vita giovanili nella trasfigurazione della realtà percepita, in cui il tuo alter ego Kenji vive la quotidianità attraverso imprese epiche. Nell’intro della “Toxic Ediction”, in “Quadri Milanesi” si evidenzia il disincanto che ti colpisce nella tua esperienza meneghina: sia nelle vesti di professore, sia a livello umano. La prospettiva sulla realtà non è più la stessa: prima decostruita attraverso un filtro personale, ora lucida sul mondo che ti gira intorno. È solo un cambiamento dettato degli anni che passano oppure si cela altro?
La prima raccolta nasce dalle ceneri dei grandi amori immortali. Vi sono il grande amore e il grande spirito che si tuffano (letteralmente) nell’immondizia. E dall’immondizia, lo dico spesso ad amici e conoscenti, non ci si rialza mai con gli stessi occhi. La Toxic Ediction, invece, è figlia di rapporti promiscui, periferici, di contratti umani e scolastici nati a tempo determinato, in cui l’impegno quotidiano risulta più importante del commilitone (mal)capitato; ovviamente questo è ciò che ho avvertito in me e soprattutto negli altri “compagni di merende”. In questo fa capolino la Milano, quore pulsante del libro. Il passaggio dalle Scene a queste altre è segnato da metafore perse per sempre, ormai vuote nella vita, che trovano posto possibile solo in letteratura. L’ultimo capitolo delle Scene “Io ho perso tutto”, lo capisco solo col senno dell’oggi, è la tabula rasa per raschiare il fondo della disillusione. Ma è pur vero che l’unico capitolo che permane nelle Toxic è “Cronache di un cavaliere in cerca di favola”. Dunque uno spiraglio c’è, una luce guida che serpeggia nel vuoto opaco in circa metà dell’opera. Inoltre aggiungo che per me quasi nessuno riesce davvero a staccarsi dai binari assegnatigli (dal destino, dalla genetica, dal fato dio degli dei?), per cui, partendo da questa premessa bruttina e sincera, si può immaginare il conflitto tra il me che vuole credere nell’ultra-esistente in potenza e il me disilluso distrutto dalla caducità di ogni possibile cambiamento e conquista. Si finisce quindi a ritrovare gli amici persi perché in viaggio su binari diversi ad un matrimonio ed hai fatto troppa abitudine alla terraferma per poterti permettere di alzare la gonna alla sposa o dirgli negli occhi urlando: “TI RICORDI DI NOI?”.
Nel capitolo “Toxic” traspare una critica al mondo dell’Arte, che ritroviamo anche nel primo capitolo, dove ne sottolinei l’autoreferenzialità celebrativa, la mancanza di anticonformismo reale: quali sono gli aspetti imprescindibili che rendano l’Arte tale da poter smuovere le coscienze?
Adoro che hai utilizzato “mancanza di anticonformismo reale”. Proprio perché la parola “anticonformismo” si è talmente caricata di retorica che quando l’utilizzo in un discorso, devo aggiungere almeno due/tre chiarimenti, quasi a discolparmi per averla usata. E in realtà è proprio così. Io mi sento un “anticonformista reale”, uno che si sente bene e pieno solo quando si gioca con le proprie regole e quando queste implicano un passo verso il Nuovo, verso il rivoluzionario. Credo che, al di là delle più facili provocazioni (mi pare ovvio che una scorreggia abbastanza rumorosa può già di suo essere una forma di provocazione, ma ciò non la rende di per sé una provocazione vera. Quest’ultima per me oggi è un pensiero realmente libero, non castrato da relativismi psicologici e dalla piaga acefala del politicamente corretto) sia proprio questo essere anticonformista l’acme della provocazione, proprio in quanto tale.
Oggi vedo tanto intrattenimento, pochissima Arte. Sono sicuro esista, è solo per me difficile andare a scovarla. Dunque l’Arte alla luce del sole, è arte di sistema, arte che poco stimola a una reale riflessione, arte prona al semplicissimo, come il circolo vizioso del marketing che instupidisce le folle deconcentrate. Messaggi rapidi, che non necessitano attenzione e riflessione, che devono scorrere in pochi secondi. Discorsi che farebbe il grafico di una locandina di un negozietto applicati alla produzione artistica. Ciò avviene di continuo. Inoltre assistiamo ad interviste piene di domande tipo: “Adesso che sei famoso come…” o “Il tuo ultimo album è stato un successo, cosa…” o “Come vivi questo cambio di vita adesso che…”, tante domande che parlano di un traguardo sociale raggiunto e mai che infilano il pugnale davvero in un testo, in un concetto che non sia il semplice affrancarsi da una povertà proletario-borghese, che non sia una forma di arrivismo. Da qui deduco la scritta sul retro delle Toxic in cui dico che “il fine dell’artista oggi è l’imprenditore”. Questa visione subconcettuale per cui il soldo/successo ottenuto è la giustificazione e il fine ultimo del creatore d’arte. Abominevole. E da qui la mia provocazione per cui “faccio l’imprenditore ora, quindi posso fare arte”. Ma questa è solo parte di una critica tutta sociale all’arte.
In realtà, sono proprio deluso dall’artista in sé, specie quando latita di reale intelligenza e/o anticonformismo. Anche perché gli artisti sono comparabili ai medici con gli ammalati o ai becchini con I cadaveri. Sono I primi a disilludersi perché hanno conosciuto la fiamma, perché hanno già bruciato. Dunque sono I miei ultimi lettori, coloro che si permettono lo snobbismo di pensare di sapere e smettere di sentire. Conosco artisti intellettualoidi che sono più manipolabili dei miei compagni di pallone e poker. Questo perché sono poveri di praticità. Ed io adoro la praticità nell’arte. Quando trovi la praticità nell’arte, quando trovi l’artista che sovrasta la propria conoscenza pratica del mondo con una spessa coscienza artistica, allora trovo il Genio. Chiaro che I geni sono soli, spesso invisibili.
Susseguono 4 capitoli in cui rimandi ad Andrea e al suo alter ego Kenji in racconti e storie del passato: tutto ciò, fornisce un background per concepire il disincanto odierno che si riscontra nell’intro e nel primo capitolo. Quali altri motivi possiamo riscontrare in questa scelta?
L’ultimo capitolo porta il marchio kenjiano: “Se mi distraggo piango”. È un po’ la risposta, forse il riscatto addirittura, a tutta la provocazione che c’è nell’opera. Non è l’antidoto al “tossico”, bensì il disperato effetto a lungo termine della tossicità in me. Far del male mi fa male. Dedicare una poesia corrosiva alle tante anime che mi hanno mutilato non allevia il male. Quei 4 capitoli sono la prosecuzione del gioco del disincatamento: il Disincantesimo. Per risolversi la formula magica del Disincantesimo è necessaria l’evocazione del vento che scuote il mantello immaginifico. È necessario il senso di eternità, la voglia di lasciare il solco, di immortalare I piccoli momenti obliati, quelli che per istinto tento di esorcizzare nelle mie pagine, proprio perché mi straziano. Mi strazia la dimenticanza, il perdere l’emozione vissuta, mi strazia la non condivisione, il lasciare che il tutto muoia in me o con me. Come hai giustamente osservato, il narrato di questi capitoli è l’incantamento lasciato ad ardere, il fumo l’esalazione del terreno incenerito.
Il tuo sguardo di “disincanto tossico” sulla realtà, come può conciliarsi con la metabolizzazione e il racconto delle vite altrui come avviene nel capitolo “Dai tuoi occhi”?
Il “disincanto tossico” è, sempre con il senno del dopo, una reazione alla ripetizione. Sono sempre stato trafitto dalla ripetizione, non riesco a ripetermi, non riesco a sentire o provare nella medesima modalità. Una cosa normalissima e che coincide con la semplice evoluzione dell’individuo, dirai tu. E invece vedo persone che si ripetono come se non avessero altra memoria se non quella fattuale, cronologica. Io, per sciagure natali, ho un’immensa “memoria sentimentale”. E questo tipo di memoria mi permette associazioni, anche a distanza di anni, tra il vissuto altrui e le mie esperienze. Ma questa corrosione, che sperimenta e vive Kenji, ha possibilità di assoluzione dal “sentimento da me non vissuto”, ovvero dall’esperienza dei protagonisti di “Dai tuoi occhi”. Quelle scene sono come dei quadri che portano l’insostenibile peso di uno sfondo crepuscolare. Si gioca di filtri. Vi sono più soggetti sentimentali operanti e ci sta il mio, quello che mi arriva. Poiché I protagonisti di queste Scene non sono per forza Kenji in versione toxic disillusa, così come non lo è nemmeno Kenji perentoriamente. Probabilmente possono essere I me di prima e di dopo e dunque riescono a sbrogliarsi dai legacci del mio sentire presente. Per le Scene di questo capitolo, vale lo stesso discorso di tutte le altre Scene. Sono dei frangenti che vanno preservati dall’oblio. Che a volte sento di dover preservare anche più di loro. Che a volte loro non si rendono conto di quanto possano essere stati poetici, gli oggetti stessi della poesia. Ma adesso è meglio che mi fermo con l’analisi della mia solitudine del vedere/sentire, sennò rischio che mi distraggo, e “Se mi distraggo…”.