Giunte alla terza stagione, le avventure del gruppetto di (ormai) adolescenti della sfortunata comunità di Hawkins, ridente paesino di provincia americano, solo all’apparenza sprofondato nel sonnacchioso benessere diffuso e nello spensierato consumismo di inizio anni 80′, ma, in realtà, varco predestinato per orrori fuoriusciti da altre dimensioni, acquistano venature da Guerra Fredda, si tingono di influenze prese di peso dalla fantascienza anni 50′ (Blob, L’Invasione degli Ultracorpi), si fanno più mature e cambiano il peso specifico di alcuni equilibri costruiti nelle precedenti stagioni.
Quello che però continua costante in questa creatura dei DufferBrothersè la capacità di creare l’impressione di una forma primigenia, di ingenerare nello spettatore (anche in quello più smaliziato e cosciente del bacino di ispirazione da cui lo show attinge continuamente a piene mani) l’impressione e l’emozione di assistere per la prima volta a determinate scene e situazioni, e non (come oggi troppo spesso accade) di seguire un collage di scene rubate a destra e a manca, strizzando l’occhio allo spettatore 2.0 e rinunciando ad una costruzione narrativa qualsiasi, in nome di un facile citazionismo, legittimando la ventata Tarantiniana di metà anni 90′, grazie alla logica dell’accumulo e del flusso di coscienza reso mainstream dalle infinite stagioni dei Simpson.
Allora, ecco scoperto il segreto del successo di questa serie all’apparenza ingenua prodotta e distribuita da Netflix. Un segreto apparentemente semplice-semplice, ma che appare difficilissimo da seguire: Costruire ed innestare.
Costruire un contesto, inventare un luogo, una situazione, un dramma, una parabola narrativa, una “bomba a tempo”, relazioni tra personaggi credibili, sentimenti e mancanze. In una parola: scrivere. E, solo dopo la scrittura, innestare, ibridare, citare, sminuzzare cultura popolare cara e comprensibile ad un pubblico di riferimento (i nati negli anni 80′ che oggi, cresciuti, hanno possibilità di spesa e sono quindi il bersaglio preferenziale a cui mira il mercato).
E cosa c’è di più comprensibile e diffuso della cultura pop? Della ventata di rinnovamento del cinema e del mondo dello spettacolo in generale, portata a fine anni 70′ da Steven Spielberg e George Lucas?
Tirando fuori dal pessimismo impegnato del cinema civile americano degli anni 70′, un nuovo concetto di spettacolo-filmico, Spielberg e Lucas, che hanno poi dato il battesimo del fuocoa una nuova generazione di talenti (Joe Dante, Robert Zemeckis, Ron Howard…), hanno creato un fenomeno di costume e formato un intero immaginario fatto di un connubio mai visto prima di capacità narrativa, fantasia e prodezze tecniche e tecnologiche, che annullarono la distanza tra cinema “alto” e cinema di “genere”, iniziando un terremoto (non del tutto positivo a volte) di cui avvertiamo chiare le scosse di assestamento oltre 30 anni dopo.
A questo momento chiave della Hollywood anni 80′, Stranger Things si abbevera senza vergogna.
Il resto lo prende dal cinema di visivamente raffinato di Ridley Scott (Alien su tutti), da quello allucinato e apocalittico di James Cameron (Terminator), da quellomutaformadi John Carpenter (La Cosa) dalla letteratura di Stephen King (IT, The Mist, Stand By Me), dalla musica con le hit più celebri del periodo (Michael Jackson, Madonna), dai passatempi e dai giochi (Dungeons&Dragons e biciclette, action-figure e meccano), dalla riproposta dell’ abbigliamento, dall’esibizione dei poster, e da tutto il visualizzabile su schermo, la serie, fa di tutto per calare le vicende in una ambientazione anche troppo perfetta, dove la nostalgia diventa essa stessa personaggio narrante.
A onor del vero, il nucleo nostalgico stesso di StrangerThings risiede nel film di quel genio malefico di J.JAbrams, già autore di Lost, che nel 2011 dirige “Super 8“, film-omaggio a quello stesso immaginario Spilberghiano(che lo stesso Spielberg produce) di cui oggi si sta abbeverando la serie fenomeno di Netflix.
Ma il film di Abrams attingeva ad una sola fonte, al binomio alieno costituito da”Incontri Ravvicinati“ed”E.T.“. L’operazione dei Duffer Brothers, come detto, appare invece onnivora di un certo immaginario a livelli di bulimia a cui raramente si è assistito.
Il cinema (come tutte le arti) affronta spesso momenti di riutilizzo, citazionismo, revisioni di materiali usurati ed ormai inservibili. Non sempre ciò è un problema. La saga di Indiana Jones era un chiaro riciclo di un intero immaginario ormai abbandonato: Film, serial, fumetti e racconti d’avventure degli anni 30′-40′-50′, dove scenografie pezzenti di cartapesta, massi di polistirolo e attori di serie C, si dimenavano in combattimenti improvvisati in bilico su trame spesso traballanti.
Ecco allora l’idea che appare primigenia (avuta da George Lucas, poi diretta da Spielberg): Recuperare quell’immaginario perduto, ormai inutilizzabile, troppo ingenuo per il pubblico attuale, innestarlo di tecnica e sapienza narrativa contemporanea, ri-utilizzare un intero immaginario, smembrato, particellizzato. Sostituire l’ingenuità con l’umorismo, le certezze di un periodo storico diverso, con il disincanto di un mondo necessariamente cambiato.
StrangerThings si muove (fortunatamente) sugli stessi binari, non si avviluppa mai su se stesso, non si contorce alla disperata ricerca della facile citazione, ma costruisce, e prende una sua propria identità, diventando un prodotto che seppur a volte quasi archeologico nel rievocare un passato prossimo, non rinuncia ad una freschezza e ad un sua chiara identità moderna, capace di un punto di vista distaccato su sogni e illusioni di una generazione.
Al contrario delle avventure dei ragazzi diHawkins, la dittatura della nostalgia e del citazionismo a tutti i costi, sono la pastoia in cui cinema e lo spettacolo attuale si stanno approcciando spesso senza cognizione alcuna.
In un panorama in cui il pubblico è super-attento a particolari insignificanti, citazioni ad altri film, inside-Jokes, universi narrativi condivisi, saghe interconnesse, reboot continui, sequel e prequel come se piovesse, remake a stretto giro, proprietà intellettuali, anche improbabili, contese da avvocati delle multinazionali dell’intrattenimento con furia non ricordabile a memoria d’uomo; la schiavitù del riferimento ad un qualcosa di ben radicato nell’immaginario, è diventato il comodo rifugio per i produttori. L’unico porto sicuro. Una bandiera bianca sventolata verso il pubblico che grida “non produrremo niente di originale! Non abbiate paura!“.
Il Pubblico, plaudente, corre a frotte ad assistere, rassicurato, all’ultimo lavoro di mamma Disney, impegnatissima a convertire tutti i suoi classici d’animazione in grossi film dal vivo, dando un colpo al cerchio del botteghino e un colpo alla botte dei diritti d’autore su storia e personaggi, prolungando in questo modo, di un’altra cinquantina d’anni, il diritto esclusivo di vendere gadget e dvd di una favolistica classica ormai brevettata, liofilizzata e inscatolata come nemmeno una Monsanto dell’immaginario avrebbe potuto fare meglio.
Il futuro appare quindi davvero quello descritto da Ernest Cline nel suo libro “Ready Player One” (da cui, non a caso, per un ironico gioco di specchi, è stato tratto un film diretto da Spielberg stesso), in cui la citazione e la conoscenza della cultura pop è, apparentemente, l’unica moneta di scambio? L’unica specializzazione che può dare le chiavi del futuro? Un mondo di infinite e masturbatorie citazioni dagli anni 80′-90′, una continua e famelica rimasticatura di temi, idee, facce, design, che forse hanno perso ogni qualità umana e narrativa originale, ma sono diventate solo “Skin” da indossare e da collezionare, nello stesso modo in cui (già oggi) si collezionano infiniti, costosissimi e imbarazzanti, set di action figure, Funko Pop e stampe anastatiche, poster artistici, copertine variant di fumetti, e tutto quanto il fenomeno Nerd ha reso disponibile e appetibile produrre al mostro del consumismo.
Quindi rimarremo bloccati in questo buco nero di trentenni nostalgici e arrabbiati per sempre?
No. Fortunatamente anche i più ostici tra di noi, invecchieranno.
E il mercato, autonomamente, perderà interesse per i tristi trentenni di oggi, puntando su nuovi, speriamo migliori, consumatori di cultura popolare…