Le poesie di Francesco Teselli racchiuse nella sua raccolta intitolata “Placenta di terra”, pubblicata il 13 Aprile 2021 per la casa editrice “Officina Milena”, riescono ad attraversare una serie infinita di rimandi tra i quali spiccano aspetti autobiografici dell’autore.
Le sue radici divise tra Irpinia e Napoli, sono l’incipit di un viaggio verso un’umanità raffigurata come sul palcoscenico: in fondo Teatro e Vita sono legate da un filo indissolubile. La sua scrittura risente della sua formazione teatrale: strutturandosi in una poesia che si svincola dai soliti canoni e ricorda molto la prosa. Il suo percorso artistico è evidente:
Francesco Teselli insieme a Gilda Ciccarelli, fonda nel 2018 la Compagnia Teatrale “La Fermata”.
Studia come attore, regista e formatore in Corsi, Workshop e Masterclass tenuti, tra gli altri, da: Roberto De Simone, Gary Brackett, Mariagiovanna Rosati Hansen, Marco Cavalcoli, Annalisa Canfora, Massimo Andrei. Inoltre collabora con diverse case editrici e riviste letterarie, tra cui: “Officina Milena”, “Aletti Editore”, “Edizioni Eracle”, “Auralcrave”, “Il Foglio Letterario”, “L’ottavo” e “Il paradiso degli orchi”.
Dunque, scambiamo con l’autore qualche domanda sul suo lavoro “Placenta di terra”.
Le tue poesie non si delineano in strutture tradizionali, sfiorano la prosa. Quanto la tua formazione e il tuo impegno a teatro pensi abbiano influenzato sul tuo modo di scrivere?
Il Teatro è racconto. È vita rappresentata. E noi la vita solitamente la viviamo, non ci resta tempo-né avremmo modo- per vederla in azione. Allora il Teatro ci dà questa possibilità, e ci permette di vivere almeno cento anni in più. Perché un’emozione, a furia di provarla e poi portarla in scena, la viviamo più a lungo di quanto faremmo normalmente. E non importa quanto lontano sia da noi il personaggio: le emozioni con cui dobbiamo fare i conti sono sempre le nostre emozioni, di nessun altro. Quindi dato che per me fare Poesia è uguale, le due dimensioni s’intrecciano spesso. Poesia è anche e soprattutto Teatro. Azione. Racconto. È Stanislavskij tutti i giorni, in tutte le cose della vita. È relazione con il mondo (e tutti i suoi personaggi). È sentire l’anima dei dettagli. Teatro e Poesia fanno lo stesso mestiere: mettono in scena stati emotivi.
Il concetto di teatralità emerge con forza nei luoghi in cui rimandano le varie poesie: il racconto dei personaggi incontrati nel quotidiano, vengono descritti come se fossero protagonisti sul palcoscenico; quando le storie toccano la tua sfera intima, “in scena” mostri te stesso con le tue fragilità e quella vulnerabilità che la vita riesce a risvegliare in noi. Cosa vorresti potesse arrivare in “platea”: dunque, al lettore che vedrà lo spettacolo susseguirsi di pagina in pagina?
La bellezza dell’arte, in generale, sta nella trasformazione. Se arriva solo quello che volevo dire- senza attraversare mai significati e sfumature negli altri senza cambiare connotati- non m’interessa. Ogni mio incontro contiene un significato (come per ciascuno di noi). E dentro ogni parola che ho scritto si nasconde la mia idea. In platea vorrei che i miei significati e le mie idee diventassero qualcos’altro. Perché ognuno vive il suo spettacolo (per parafrasare male Shakespeare)… allora magari potremmo provare a scambiarci gli spettacoli, ogni tanto!
La Poesia è uguale, parla della vita. Sempre. Come il Teatro. Per me sono collegati. Le vite hanno valore solo se mischiate tra di loro; un’esistenza individuale non sarebbe possibile
”Placenta di terra”, il titolo della tua raccolta, simboleggia questo cordone ombelicale che ti unisce a due terre: quella irpina e quella napoletana. Quali sono i valori che ti porti dentro da entrambe le culture e soprattutto come si riflettono e si amplificano all’interno di queste poesie?
Mi verrebbe da dire Lentezza e Resistenza. Due concetti in contrasto tra loro e che forse proprio in questo loro scontrarsi potrebbero rendere al meglio le due anime che mi abitano, le due terre a cui appartengo. Perché da un lato sono pigro, non riesco a pianificare niente che superi le due ore, attraverso con lentezza le giornate e spesso ho bisogno di fermarmi a leggere un po’. Caratteristiche che, non saprei spiegare bene perché, ma attribuisco più alla napoletanità (sono consapevole di essere stato sempre un napoletano fortemente atipico). Dall’altro lato sento di dover fare qualcosa. Mi percorre questo costante desiderio di fare, perché solo facendo si può cambiare il mondo (fossero anche solo le prime due case del rione: il mondo è tutto mondo, non comincia in un punto particolare, non ha una porta d’ingresso, è mondo ovunque). E quest’attitudine la sento più irpina. Forse perché è una terra che deve lottare tutti i giorni, per affermarsi, per mostrare a chi gira la faccia dall’altra parte tutta la sua meravigliosa bellezza e storia infinita che costantemente si cerca di affossare.
Ricordo il momento esatto, l’embrione (per restare nella stessa allegoria del titolo) da cui poi è nata l’intera raccolta. Eravamo intorno al fuoco, fine ottobre. Preparavamo un tipico dolce irpino (e cioè i cosiddetti “taralli melati”). “Placenta di terra”, la poesia, è nata così. Quella stessa sera. E poi intorno a quel concetto ho raccolto il resto. Anche se non ho scritto delle poesie che avessero un fil rouge tracciato. Sono pochi gli elementi di una volontaria territorialità (se così possiamo chiamarla). Oltre alla poesia omonima che dà il titolo alla raccolta – e che certamente racchiude l’essenza ancestrale del mio senso di appartenenza all’Irpinia – mi verrebbe da dire forse solo “Alzheimer” (che certamente ha in nuce tutta la mia infanzia napoletana, evocata e messa in scena dalla figura di mia nonna). Il resto si sfuma, nell’universale. È un senso di appartenenza che si deteriora, negli abissi del Mediterraneo, nelle scarpe ritrovate a riva di migranti martoriati, nella morte sotto al sole – di calore e di sudore – di braccianti torturati. E poi scende più a fondo, intendendo Terra: il pianeta Terra. Non solo la terra come radici, appartenenza, legami, tradizioni… il vero discorso diventa un altro. E, non vorrei ripetermi, ma la sostanza è sempre la stessa: l’asse Vita-Teatro-Poesia. Ruota tutto qui. Viviamo di sensazioni, condizioni emotive, suggestioni. Non possiamo farne a meno. Il più indifferente, vive comunque la condizione dell’indifferenza. Siamo prigionieri delle emozioni; o forse compagni, alleati (dipende da noi). E allora quello che volevo dire con un titolo così è anche che la Terra, il pianeta in cui abito, semplicemente mi nutre di tutto questo. Ecco perché il simbolo del cordone ombelicale. Io non faccio altro che inseguire questo nutrimento. Rappresentandolo: agli altri, per poterlo mettere in scena a me stesso. Sulla carta. Sopra un palcoscenico. È uguale.