Prescindendo da valutazioni di carattere esclusivamente politico e operando un distacco dalla mera analisi dei flussi elettorali, il voto delle europee ci consegna una voragine in cui le articolazioni della società meridionale rischiano di precipitare. Una spaccatura sempre più netta, rappresentativa dell’epoca che stiamo vivendo. L’enorme distanza tra città e campagna, centri urbani e periferie, capoluoghi e provincia. I sintomi sempre più evidenti di un’incomunicabilità.
Il Movimento 5 Stelle rimane primo partito nel mezzogiorno ma con un depotenziamento colossale: 17 punti in meno rispetto alle scorse politiche. La disillusione nei confronti dei pentastellati ha accentuato ulteriormente il ricorso all’astensione. Nella circoscrizione Sud il partito del non voto non ha rivali nelle urne, vola ben oltre il 50%. Un elemento, è bene specificare, in grado da solo di mutare il quadro politico, di decretare vincitori e vinti. Il vastissimo consenso accumulato dai grillini al Sud ha esaurito la sua spinta, originariamente frutto di un’aspettativa concentrata attorno al Reddito di Cittadinanza. Approvato in fretta e furia per poterlo sbandierare in campagna elettorale ha, invece, affossato il Movimento, complice gli scarsi benefici al momento prodotti. La ripresa del Pd, invece, appare ancora troppo timida perché possa costituire un argine all’avanzata leghista. Il voto ha perso specificità locale, si uniforma alla tendenza generale, al vento che spira. E il vento ha sospinto la Lega anche al meridione, lì dove non aveva radici, né precedenti. Il carroccio in versione nazionale ha operato la prima comparsa sui territori servendosi di un vecchio ceto politico, di personaggi per nulla restii a un trasformismo di comodo, a trasferire le proprie virtù clientelari sul carro del vincitore. Di tutti quei soggetti sociali disposti, per opportunismo, ad agevolare l’inevitabile ascesa. Ma al di là delle mosse politiche e dell’incapacità degli altri, le ragioni del successo della Lega al Sud sono da ricercare nelle condizioni stesse in cui il Sud versa. Nell’estremo disagio sociale e culturale manifestato dai contesti di provincia. Da quelle dignità e da quegli stili di vita completamente ignorati dall’agenda politica.
La provincia profonda, dimenticata, non si riconosce nel multiculturalismo, guarda alla modernità globale ormai come una minaccia e al passato come un periodo per cui provare nostalgia, non riuscendolo più a legare a un’idea di futuro. Il voto del Sud parla di un’angoscia misconosciuta, di un ripiegamento, di un istinto di conservazione. A guardia dell’esistente e di ciò che è stato. Di una condizione sospesa, quasi cristallizzata, di cui nessuno si è più occupato. Non il centrosinistra che, dall’autenticità perduta delle sue classi dirigenti fino alla strenua difesa della globalizzazione, ha troppo spesso abdicato alla sua ragione d’essere, incapace di arruolare nella sua narrazione, prima ancora che nella sua vocazione, le identità particolari, le esperienze pietrose e desolate, quello che un tempo era definito ‘socialismo appenninico’ e che, con il trascorrere degli anni, quasi inconsciamente, è diventato una retrovia incolta, abbandonata al suo destino. E che adesso si ritorce contro. La provincia meridionale cerca protezione, si accontenta di essere vezzeggiata da una narrazione almeno abile a includerla toccando le corde giuste per creare una connessione sentimentale: l’identità, le radici, la difesa dalla minaccia esterna. Il messaggio di Salvini allude a un ripristino di un passato rimpianto. Con il suo campionario di riferimenti iconografici, e con la sua retorica abusata e monotona che comunica senza offrire soluzioni ma che almeno è chiara e non astratta. Semplifica e distorce ma arriva alla pancia delle persone così come nel ventre del paese. Un invito continuo e fuorviante alla primordialità, alla rozzezza come elemento distintivo. Un ammiccamento a una popolazione invecchiata e impoverita, che non è stata investita dal progresso ma che anzi dal progresso si sente tradita. Classi subalterne pronte a trincerarsi, a sopperire alla desolazione e alle partenze inforcando parole e simboli del secolo scorso, modellati dal brand sovranista. Una sorta di retrotopia consolatoria, in cui il richiamo al tradizionalismo e il franchising del “Padroni a casa nostra”, costituiscono la corazza per affrontare la lunga stagione di trasformazioni. La vulnerabilità si tramuta così in chiusura, in una forma di egoismo sociale rassicurante. Si risponde alla paura più che ai bisogni, alla richiesta di protezione più che all’emancipazione. Il destino degli altri, di chi viene da fuori e in un certo senso di un mondo globale che cambia a una velocità impercettibile, non è più contemplato perché non più assimilabile. I penultimi, così, votano per chi respinge gli ultimi. La tavola imbandita con la paura e l’insicurezza è il banchetto prediletto della Lega. E poi c’è il web, l’ipereccitazione del leader, la sua presenza insieme fisica e virtuale. Il trendic topic come forza della storia.
Nei luoghi dell’impotenza sociale e della solitudine, il potere seduttivo di un demagogo, abile comunicatore e costantemente sulla cresta dell’onda mediatica, si amplifica fino a oscurare le incongruenze col passato. “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani. O colerosi, terremotati…”. Terremotati. Lo scherno, quasi l’accusa, intonata nei cori o riportata sugli striscioni degli stadi del nord quando il Napoli di Maradona si affacciava all’inseguimento di un titolo che valeva innanzitutto il riscatto di una terra dilaniata dal sisma, dalla criminalità, dagli scandali. Da una miseria sempre materiale, mai umana. Proprio in seguito all’Irpinia Gate e alla più grande speculazione sulle disgrazie di una terra, prosperò il fenomeno leghista. Una degenerazione sulla degenerazione. Secessione, Roma ladrona. Il leone che mangia il terrone. Mentre le aziende del nord colonizzavano l’Irpinia per partecipare al banchetto, godendo di laute sovvenzioni statali senza restituire nulla in cambio. Il lavoro, ad esempio. E adesso, nei paesi del cratere, il risultato elettorale recita così: Lega, Colliano 38,7%, Valva 27%, Calabritto 30,7%, Bagnoli Irpino 26,8%, Palomonte 45,2%, Castelnuovo di Conza 21%, Pescopagano 21,2%, Castelgrande 33,3%, Santomenna 32,4%. In quasi tutti, il primo partito. La prova che anche il passato è astratto se si distacca dalla realtà. Che l’assenza di futuro rischia di inghiottire ogni cosa.