In queste ultime settimane, nell’ambito delle sanzioni NATO, si sente spesso parlare degli oligarchi russi, importanti business men arricchitisi in maniera più o meno legale all’indomani della caduta del regime sovietico: erano in prima linea quando, sotto il presidente El’cin, nell’ambito della transizione verso un’economia di mercato, furono avviate le privatizzazioni.
Proviamo, solo per un momento, a calarci nella realtà della neonata Federazione Russa (1991), profondamente diversa dalla nostra: abbiamo (riducendo all’osso la questione) un Governo corrotto ma eletto democraticamente, una moneta (il rublo) debole sui mercati internazionali, una grande quantità di materie prime in mano allo Stato ed un drastico cambiamento nell’impostazione economica del Paese, con l’abbandono dell’economia pianificata di matrice comunista. Sfruttando questi elementi, i futuri oligarchi riescono, complice la loro vicinanza ai vertici statali, ad arricchirsi rapidamente soprattutto facendo arbitraggio: è una pratica consistente nell’acquistare beni (statali in questo caso) su un mercato, rivendendoli, successivamente, su un altro mercato, traendo così vantaggio dalla differenza di prezzo; il fine, ovviamente, è quello di ottenere un profitto che non potrebbe essere ottenuto rivendendo il suddetto bene sullo stesso mercato sul quale è stato acquistato. Per avere un dato tangibile dei loro guadagni, basti pensare che, tra il 1996 ed il 2000, controllavano, insieme, più della metà delle finanze russe.
Sono privati cittadini, ovviamente per niente popolari tra i connazionali e, a parte qualche eccezione, non hanno mai ricoperto cariche pubbliche, ma hanno un peso non irrilevante nella politica russa. Due esempi valgano a dimostrarlo: nel 1996 svolsero un ruolo fondamentale nella rielezione presidenziale di BorisEl’Cin, sul quale hanno sempre mantenuto una grossa influenza; all’inizio del nuovo millennio, poi, strinsero un importante accordo con Putin, che gli ha permesso di mantenere il proprio potere in cambio dell’incondizionato ed esplicito appoggio al Governo. L’atteggiamento del leader pietroburghese nei confronti di questi uomini è stato quanto mai azzeccato: ha utilizzato bastone e carota, riuscendo a tenerli sotto controllo alla perfezione. All’inizio li ha impauriti, ottenendo, così, un accordo più vantaggioso per sé (visto che avrebbe avuto il loro appoggio) che per loro (i quali, alla fine, mantenevano sì i propri poteri, ma si stavano sottomettendo ad uno Stato che per 10 anni avevano in pratica controllato). Ha sbagliato un solo passaggio: danneggiarli. C’è da notare che, durante la presidenza Putin, alcuni oligarchi sono stati accusati per varie attività illegali delle loro aziende e sono stati, successivamente, costretti alla prigionia o all’esilio. Questo, ovviamente, ha fatto venir fuori una profonda diffidenza nei confronti del Presidente da parte di questi suoi “alleati”, oltretutto fortemente danneggiati a livello economico dalla crisi del 2008 e dal conseguente calo vertiginoso del mercato azionario russo.
È ovvio che degli uomini d’affari siano profondamente legati al proprio profitto; e cosa più di una guerra che si protrae a lungo potrebbe far crollare i loro guadagni? Ecco, la chiave per arrivare alla pace senza scomodare gli eserciti NATO sono loro. Il conflitto ucraino, le sanzioni ed i sequestri dei beni di cui sono proprietari sul suolo straniero, impongono loro una certa fretta nel vendere le proprietà fisiche nei Paesi NATO, per portare le loro ricchezze verso altri lidi.
Quale potrebbe essere, quindi, la soluzione? Magari essere più rapidi di loro? Costringendoli così a far pressione sul Governo per ritirare le truppe, evitando, in questa maniera, le sanzioni. Certo, è una manovra di difficilissima applicazione, ma, di sicuro, la priorità, in questo momento, è di trovare una pace non umiliante per nessuno, in modo da scongiurare il dilagare della guerra in Europa e da evitare esagerati attriti diplomatici pericolosi per il futuro.