Lunedì, 10 Maggio, 2021.
Sono le 13:30 manca mezz’ora all’inizio della partita, un fremito riannoda un ricordo: sono passati esattamente 23 anni quando vidi, da tifoso ancora in erba, colorare una città e la provincia a tinte granata con la prima lettera dell’alfabeto scritta in maiuscolo, a caratteri macroscopici; in una festa che mischiava il sacro e il profano celebrando l’estasi piena. Taccio, è un pensiero sulla circolarità del Fato, o del disegno di Eupalla, come amava chiamare Brera la divinità che protegge e ispira il gioco del Calcio.
Spiegare cosa significhi tifare Salernitana è complesso; perché ognuno di noi ci aggiunge aspetti infinitamente personali ad una storia collettiva che lega generazioni tra di loro.
Ora si son fatte le 14:00 le squadre scendono in campo. Dopo 45 minuti i primi tempi di Pescara-Salernitana e Monza-Brescia finiscono 0-0. In quel momento è come se cicatrizzasse un senso di angoscia, attesa, ansia, paura che copre la speranza: cammino avanti e indietro per scaricare tutto . Tifare Salernitana è un esercizio fisico oltre che mentale, che esprime al meglio ogni emozione.
“Sta Salernitana come la vedi quest’anno?”, è la frase ricevuta e detta più spesso, nei momenti di vita più disparati: che stiate aspettando il vostro turno alle poste; in un incontro fugace dopo mille convenevoli di rito, anche nei luoghi meno piacevoli come in un ospedale, per sdrammatizzare e alleviare momenti di preoccupazione. Con questa domanda anche la mimica del corpo diventa protagonista: se la risposta fosse negativa, basterà solo un gesto che veicoli dissenso, come per dire “che ne parliamo a fare, lasciamo perdere!”; nel caso opposto c’è uno sguardo di soddisfazione, tra un sorriso e un’espressione di giubilo, per dire ”quest’anno ci divertiamo!”.
Allo stadio, il corollario di queste pose espressive riesce ad avere picchi che nemmeno in teatro è possibile ritrovare: silenzi nel post partita, ghigni di rabbia; sguardi pietrificati dopo prestazioni alquanto discutibili o dopo gol subiti al 90mo, capaci di smorzare qualsiasi slancio. Rimanendo con l’amaro in bocca.
In questi 23 anni, in questo tritatutto che è il tempo, ne sono successe di cose: fallimenti, tribunali dove la Salernitana è rimasta a prendere polvere tra le scartoffie dell’ennesima asta andata a vuoto; poi il ritorno in campo non privo di smacchi e cadute.
“Macte Animo” è il motto di questa squadra, voluto fortemente dal primo presidente della Salernitana, Adalgiso Onesti, sin da quel lontano 1919: il coraggio a dare forza a tutto. Sì perché ci vuole coraggio a rialzarsi dopo le cadute di questi anni. Oggi è diverso: l’ultimo sforzo a coronare un desiderio a lungo atteso.
E il secondo tempo riparte, al 67mo si innesca un ping pong positivo di eventi: rigore per la Salernitana realizzato da Anderson, al 69mo a Monza segna Ayè portando in avanti il Brescia. Basta poco e la Salernitana raddoppia al 72mo con Casasola e pochi minuti dopo raddoppia anche il Brescia al 78mo. Quel flashback che ho avuto prima della partita si materializza: ricordo un piccolo tifoso che si avvicina alla Salernitana attraverso le vhs, rivedendo la promozione in B dell’89/90 con Agostino di Bartolomei e la cavalcata dei playoff con la finale al San Paolo contro la Juve Stabia della stagione 93/94. E infine, vivere il primo anno allo stadio, proprio nel campionato che ci portava nel Gotha del Calcio: era il 1998.
Ogni domenica la gioia di arrivare da Castellabate a Salerno: l’Arechi gremito che ti accoglie con una scia di bandiere e una fila indiana di tifosi al passaggio bardati di granata; dopo aver parcheggiato, la corsa nel salire le scale che portano alla tribuna. E lì è difficile non sentirsi coinvolti da un entusiasmo trascinante, quello che parte dalla curva e abbraccia tutti gli altri settori: come quella “ola” che si era soliti fare. Si viveva di pane e Salernitana durante tutta la settimana, per quanto si fosse inebriati da quello spettacolo: in campo e sugli spalti.
Arriva il 90mo, la partita da parecchi minuti non ha nulla da dire il verdetto è certo: Siamo in A.
Quel bambino è cresciuto, ora ha trent’anni e la cosa a sentirselo dire fa sempre un certo effetto, non avrebbe mai e poi mai immaginato di viverlo questo giorno. Sono lacrime di gioia.
La festa esplode: profuma di un entusiasmo ritrovato. Più che le parole sono i gesti compiuti a raccontare e raccontarsi. La sintesi massima sono gli occhi di chi ha condiviso con te anni di gradoni con il freddo, sotto la pioggia battente, quando era più difficile e quando non si era in tanti; sono gli occhi dei più grandi che ora vedo emozionarsi e sono lo specchio di decenni di salernitanità tra Donato Vestuti e l’Arechi.
Ho sempre pensato che la felicità legata ad un evento del genere sia sempre proporzionale all’importanza che abbia legato, nel caso specifico, la Salernitana alla propria vita: l’essere il motivo di un lunedì felice in cui si tornasse a scuola con il sorriso; quando le cose nella vita non andassero per il verso giusto, lo stato d’animo dove rifugiarsi; le amicizie nate per questa stessa passione; il viaggio nella Polis gattiana attraverso le parole dei tifosi storici figli della Salerno più popolare, un racconto vivente e fluido di scorci di tempo segnati da eventi che hanno sempre la Salernitana come bussola da seguire: trasferte oceaniche, gol storici, personaggi del tifo, calciatori rappresentativi, aneddoti capaci di riempire almanacchi.
Ultimi e non per questo ultimi sono le presenze più vive, gli assenti: ci sono quattro bandiere, quattro sciarpe e quattro maglie che sarebbero state in bella mostra per le strade di Salerno per l’occasione. Così come fecero quel 10 Maggio 1998 quattro ragazzi: Simone Vitale, Ciro Alfieri, Vincenzo Lioi e Giuseppe Diodato.