Percorrere il genio musicale di Dalla è come infilarsi fra le carreggiate di un’autostrada lunga quasi cinquant’anni. Frammenti di storia che, vorticando in maniera consistente, corrono dai profondi ’50 fino all’altro ieri. Lucio Dalla è figlio di un lungo dopoguerra. Figlio, come tanti del resto, di macerie e privazioni, fughe e assenze.
Sorgono però, travolgenti e ammiccanti, nuvole libere fra le frequenze d’oltreoceano. Il Jazz inonda i portici di una Bologna che, comprensibilmente, è vogliosa di riappacificarsi con la vita perduta, una Bologna che saprà trasformare i fermenti giovanili in lampi di pura arte.
Il giovane Lucio è un asso del clarinetto, ha capacità vocali indiscutibili, ha ritmo, sa improvvisare. Adotta il linguaggio musicale come mezzo di comunicazione, si lancia con successo in numerosi duetti con alcune stelle del Jazz internazionale. La sua poliedrica personalità diventa, dopo un’adolescenza travagliata, appetibile in sede di determinate logiche di mercato. Le etichette di produzione fiutano, nel complesso delle stravaganze artistiche del ragazzo, un talento su cui puntare. L’inizio, tuttavia, non è dei migliori. Il fascino bislacco e l’eccentrica ascendente di Lucio restano intrappolati nella stereotipata selva della discografia italiana. Sono gli anni in cui effettivamente si intrecciano vari generi importati, inizia a poggiare le proprie basi una fredda visione consumistica della musica, una scheletrica strumentalizzazione degli eccessi. Chi ne gestisce la sala comandi si assume in toto l’incarico di plasmare personaggi da servire ad un pubblico sempre più ampio.
Dalla non è propriamente inserito in questi schemi. Il suo percorso procede, non sempre fluido, sballottato fra la continua voglia di perfezionarsi – che solo i grandi hanno in dote – e la ricerca di una propria posizione precisa nel panorama musicale. Nonostante le prime apparizioni siano un totale fiasco l’autore non si perde d’animo e, dopo la letterale pioggia di ortaggi rimediata al “Cantagiro” con “Lei, non è per me” e il tiepido successo di “Paff Bum”, decide di imprimere una svolta alla propria carriera. Si inserisce in questo contesto quello che, da un punto di vista pienamente contenutistico, è lo spartiacque dell’evoluzione di Lucio Dalla. Nel 1967 mette a punto “Lucio dove vai”, il primo testo vero, intenso, autobiografico. Lucio, dove vai? La domanda nasce in modo del tutto naturale, fa essenzialmente parte del tragitto: interrogarsi per disconoscersi e spogliarsi da ogni canovaccio preconfezionato.
“Lucio chi sei tu?
Un vestito diverso non ti cambierà
Lucio chi sei tu?
Perché hai coperto col berretto rosso
Il grigio che c’è in te?
E non sai più perché lo fai
Ridi, ridi”
Questa continua ricerca della propria interiorità troverà notevoli spazi nel corso degli anni. Dalla in quel periodo comincia inaspettatamente ad essere apprezzato, implementa il numero delle apparizioni televisive e perfino cinematografiche, collabora infatti con Franco e Ciccio per le musiche del film “Franco, Ciccio e le vedove allegre”. Inoltre la sua visionaria “Fumetto”, datata 1969, diventa sigla di un programma per bambini prodotto dalla Rai: “Eroi di cartone”.
Nel 1971 collabora con Paola Pallottino alla stesura di “4 marzo 1943”, è il primo dei tanti capolavori che costelleranno la sua ascesa verso i giorni nostri. Il brano, presentato a Sanremo, traccia lo scomodo – per i canoni dell’epoca – parallelo poetico fra il figlio di una ragazza madre e il Gesù bambino allevato dalla Madonna. Il pezzo che racconta la parabola di un ragazzo avvinazzato e senza padre – come prevedibile – intravede le forbici della censura ma, nonostante ciò, riscuote comunque numerosissimi consensi.
“E forse fu per gioco o forse per amore
Che mi volle chiamare come nostro Signore
Della sua breve vita è il ricordo più grosso
È tutto in questo nome
Che io mi porto addosso
E ancora adesso che gioco a carte
E bevo vino
Per la gente del porto
Mi chiamo Gesù bambino”
Il solco sembra essere tracciato, Lucio ha ora una visione più ampia dell’altro, coltiva la vocazione di cantare gli ultimi, i meno fortunati. Nel 1972 delinea i contorni di uno dei testi più evocativi del suo tragitto, si tratta di “Piazza Grande”. Dedica ideale a un senzatetto, un gatto che non ha padroni, e – sebbene non sia mai stato dichiarato specificamente – a se stesso.
“Una famiglia vera e propria non ce l’ho
E la mia casa è Piazza Grande
A chi mi crede prendo amore e amore do, quanto ne ho”
Gli anni ’70 sono portatori di scenari nuovi, soffiano venti avversi, è il periodo delle involuzioni sociali, della rincorsa all’industrializzazione forzata, lo shock petrolifero del ’73 definisce le barriere tangibili di un progresso che sembrava illimitato. Nascono, ormeggiate alle maree di nuove proteste, discussioni di natura sindacale ed ecologista. Lucio Dalla, in quegli anni, stringe un fortissimo legame con il poeta bolognese Roberto Roversi. Frutto di questa collaborazione è la prima esperienza condivisa “Il giorno aveva cinque teste”, un album in cui viene sperimentato un linguaggio nuovo, criptico. Una raccolta che sintetizza a pieno le prevaricazioni strutturali dell’epoca e corre nel senso di una proletarizzazione del messaggio musicale. I concerti si tengono anche, innovativamente, all’interno delle fabbriche, la canzone assume connotati diversi, ha ora valore aggregativo per determinate categorie sociali, illumina le esistenze disagiate dei lavoratori. Esistenze vincolate ad una moderna automatizzazione che riflette, nelle stagnanti trame della storia, l’ombra di generazioni deframmentate nell’intimo da nuovi sfiancanti ritmi produttivi.
“S’alza il sole sui monti
e sono ferito a morte, ferito al petto e condannato
povero operaio, povero pastore, povero contadino
s’alza il sole sui monti
e sono già morto e sotterrato”
Procede sulla scia della canzone impegnata il lavoro di Dalla e Roversi, nel 1975 vede la luce del sole “Anidride Solforosa”. L’album si incastona fra le pieghe di un mondo consapevole che ogni sterile esaltazione antropocentrica è stata disattesa, un’umanità che sa di aver superato il crinale ed è conscia di inoltrarsi verso sconosciute derive. I testi hanno, se possibile, una carica poetica ancor più densa, sicuramente rinnovata. Commovente “Tu parlavi una lingua meravigliosa”, canzone che illustra nella sua veste soggettiva i passi malfermi di un amore tormentato, respinto, battuto dai fuochi dalle campagne, dagli effetti collaterali del già citato progresso.
“Le volpi con le code incendiate, non parlano
Ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore
Sediamoci per terra oppure là sopra panchine imbiancate
Sediamoci sopra un letto di foglie secche
Ed ascoltiamo il nostro cuore”
Lucio Dalla – scottato da numerose frizioni e depositario di un’immane sofferenza – scinde le fortune professionali che da lui a Roversi conducevano, e viceversa. Si ritira nel suo rifugio di salsedine e stelle delle Tremiti e, setacciando le proprie incompiutezze, diviene unico referente della sua musica. Nel 1977 il suo squarcio profondo alla tela del passato conduce all’album “Come è profondo il mare”. Una produzione ricchissima da cui emergono testi intimisti come “Il cucciolo Alfredo” o “Quale allegria”, brano che esula da ogni dimensione esistente e si fionda nell’ego più imperscrutabile, meno scanzonato dell’autore. Il pezzo di punta della raccolta si crogiola fra le ceneri di un impegno civile dal quale è ancora difficile svincolarsi. “Come è profondo il mare” appunto, imperscrutabile. Una condanna al potere costituito, una poesia amara, introspettiva, che riemerge dalle viscere di una distruzione globale e si fa portatrice di una maturazione che scarnifica tutto il resto e proietta Dalla verso una concezione ancora più completa della potenza evocativa di un messaggio, il suo, che fa della libertà e dell’amore gli argomenti cardine.
“Con la forza di un ricatto
L’uomo diventò qualcuno
Resuscitò anche i morti, spalancò prigioni
Bloccò sei treni, con relativi vagoni
Innalzò per un attimo il povero
Ad un ruolo difficile da mantenere
Poi lo lasciò cadere
A piangere e a urlare
Solo in mezzo al mare
Com’è profondo il mare”
Avanza il processo creativo e dopo appena due anni, nel 1979 per la precisione, i successi vengono bissati dalla creazione di “Lucio Dalla”, album che raccoglie “L’Ultima Luna”, “Tango”, “Anna e Marco”, “Stella di mare”, “L’anno che verrà”. I testi percorrono il cammino di rifugiati senza pace, le panchine inondate di sole su cui gli innamorati di provincia si scambiano promesse, governati dal rossore dei volti. Si inscenano i presupposti per adottare chiusure storiche nei confronti di anni – politicamente e non – oltremodo plumbei. Lucio Dalla ora è strumento vivo di un cambiamento di vedute, il tema portante è, più insistentemente, l’amore per l’umanità, per ogni sua sfumatura.
“Chiudi gli occhi e
non guardarti intorno
sta già entrando
la luce del giorno
chiudi gli occhi e
non farti trovare
pelle bianca di luna
devi scappare
dormi ora
stella mia
prima che il giorno
ti porti via”
A compimento di questo percorso di crescita esponenziale giunge la raccolta “Dalla”, uno scrigno che comprende fra le numerose perle: “Mambo”, “La sera dei miracoli”, “Meri Luis”, “Dialettica dell’immaginario – Cara”. Si intravede in Dalla la sintomatologia di una purezza ricercata, una intensa e sofferente visione descrittiva, quasi cinematografica, spaccati di vita comune che intessono i personaggi delle canzoni sul filo sospeso delle delusioni e delle inconsolabili attese.
“Se d’amore è proprio vero che non si muore,
cosa faccio nudo per strada mentre piove.
E c’è di più
Non dormo da una settimana
Per quel cuore di puttana
Sono andato al cinema e mi han mandato via
Perché piangevo forte e mangiavo la sua fotografia”
Gli anni ’80 irrompono con la violenza di nuovi propositi, Dalla percorre il suo fortunato sentiero acquisendo maggiori sicurezze, impegnandosi senza remore nella composizione dei tasselli che lo renderanno immortale. Iniziano le epocali collaborazioni col suo amico e collega, Francesco De Gregori. Sono gli anni di “Banana Republic”, gli anni segnati dalla nuova trasandata vocazione di trasformarsi in vero e proprio strumento musicale. Sono anche gli anni in cui imperano atmosfere particolari, nuove impercettibili solitudini, è come respirare gli strascichi di una continua, convulsa, sbornia da festa artificiale. Si inserisce emblematico il testo di “1983”, rincorsa temporale, cantata, che dai ricordi del dopoguerra poggia i suoi versi in silenzi ora distorti, temuti.
“Le dieci del mattino e mi scoppia la testa
come se avessi bevuto una botte di vino
o fossi stato alla mia festa
apro la finestra è ancora buio
butto un urlo per strada ma non risponde nessuno
il mio cuore si è rotto come uno specchio si è rotto
si è rotto quel bellissimo orologio ti ricordi
come lo chiamavi tu”
Con “Viaggi organizzati”, successivamente con “Bugie”, Lucio Dalla procede nel percorso artistico che lo traghetta alle soglie dei grandi palcoscenici internazionali, il momento di maggior risalto si avrà con la registrazione di “Dallamericaruso” in quel di New York che fa il paio con la fortuita stesura – a dire dello stesso autore – di “Caruso”. Dalla, si lascia trasportare dallo sciabordio e dai guizzi della penisola sorrentina, approfitta di una camera vista mare, si avvale di un pianoforte attraccato alla luna del golfo e, analizzando con trasporto l’amore disperato del grande tenore, cesella uno dei componimenti più passionali del suo immenso corollario.
“Vide le luci in mezzo al mare
Pensò alle notti là in America
Ma erano solo le lampare
Nella bianca scia di un’elica
Sentì il dolore nella musica
Si alzò dal pianoforte
Ma quando vide la luna uscire da una nuvola
Gli sembrò più dolce anche la morte”
Si spalancano gli anni ’90 e la storia inizia a scomporsi in nuove faide che si tramuteranno in ulteriori divisioni sociali e in nuovi e più marcati conflitti di matrice nazionalista. Prosegue il discorso di Dalla che, sapientemente, si inabissa nel computo delle proprie incompatibilità con le derive dell’immaginario collettivo. Scorre leggero l’album “Cambio”, significativa la copertina che ritrae il giovanissimo Lucio in compagnia della madre. “Cambio” è l’album che ci lascia in dote un vero e proprio, cavalcato, tormentone: “Attenti al lupo”. Melodia che ben si presta alle ricercate evasioni di massa, evasioni che nella fattispecie pongono in secondo piano il contenuto del testo per svuotarlo e svilirlo in un iconico motivetto da ballare. Procede, nel contempo, la narrativa delle fughe incomprensibili che si coagulano in “Denis”, quasi il sequel di un Marco che ha perduto la sua Anna e cerca rifugio nei paradisi artificiali di provincia. In “Cambio” risiede, impossibile da omettere, anche una delle canzoni d’amore più delicate che siano mai state concepite: “Bella”.
“Bella, ti porterei ogni tanto via,
magari dentro ad una scatola.
Perché la mia è una solitudine del resto già un po’ elastica
Potremo uscire e ritornare nella notte,
non dormire ed aspettare l’alba.”
Nel 1994 viene prodotto “Henna”: album che coniuga il viaggio ideale di “Treno” fra i feudi diroccati dell’ormai ex Unione Sovietica. Affascinanti le liriche e struggenti avventure di un “Latin Lover” con la faccia da Beethoven che bazzica il lungomare di Riccione fra i ricordi, infagottato in un malinconico paltò. O ancora “Erosip”, l’erotico richiamo di un amore telefonico, sussurrato frettolosamente alla cornetta, senza volto, piegato alla risacca degli spersonalizzanti orgasmi al telefono. Il brano che, tuttavia, secondo lo stesso Dalla sarà quello più soddisfacente è quello che, nel complesso, da il nome alla raccolta: “Henna” appunto. Il testo è una vera e propria preghiera rivolta all’umanità, un inno alla vita, una salda condanna alla guerra e al conseguente tracimare di odio e dolore. In fondo, anche nei domani più nuvolosi, per Dalla è l’amore che ci salverà.
“Adesso basta sangue ma non vedi. Non stiamo nemmeno più in piedi. Un po’ di pietà. Invece tu invece fumi con grande tranquillità. Così sta a me che debbo parlare fidarmi di te. Domani, domani, chi lo sa che domani sarà”
Lucio Dalla fa sua l’arte della maieutica artistica e, nel corso della sua passeggiata fra i vicoli del tempo, scova numerosi talenti e si prodiga nel loro inserimento fra le spire del panorama musicale. Capita ad esempio con Samuele Bersani, così come accadrà con molti altri componenti della fiorente corte culturale emiliana. All’interno dell’album “Canzoni”, che vede la sua alba nel 1996, fa sorridere la genesi di un pezzo: “Canzone”. Non è facile stabilire con precisione i confini fra realtà e leggenda. Sta di fatto che in sala registrazione il giovane Bersani è impaziente, corroso dai suoi tormenti amorosi. Dalla se ne avvede e spedisce il giovane a casa per lenire le proprie vicissitudini utilizzando il più potente degli antibiotici immaginabili: l’inchiostro. Quella che nasce è una diapositiva fresca e vibrante, una strada per somatizzare le sofferenze amorose, una lezione di vita che, tutto sommato, riprende e migliora la massima del filosofo Nietzsche “bisogna avere il caos dentro per generare una stella danzante”.
“Testa dura testa di rapa
Vorrei amarti anche qua
Nel cesso di una discoteca
O sopra al tavolo di un bar
O stare nudi in mezzo a un campo
A sentirsi addosso il vento
Io non chiedo più di tanto
Anche se muoio son contento”
Nel 1998 un insperato ritorno di fiamma con Roberto Roversi consegna alla storia la raccolta “Ciao”. Dal ventre gonfio di meraviglie dell’album è necessario estrapolare “Non vergognarsi mai”, composizione magnetica nelle sue leggerezze. La incalzante e anacronistica “Ciao” invece cela fra le onde spensierate di un ritornello cantato a mezza bocca gli orrori di un conflitto – quello del Kosovo – che ingrossa gli indomabili argini di un ‘900 ormai agli sgoccioli ma ancora portatore di notevoli stravolgimenti.
“C’è stato come un lampo lì proprio in mezzo al cielo
che era blu cobalto liscio, liscio senza un pelo
la città sotto era un presepio, le luci del tramonto
la scia di un aereo, facevano più bello il mondo
dello sforzo dei poeti, dei mezzi giornalisti
puttane e kosovari, poi altri tipi misti
contavano le stelle, le prime ad arrivare
poi la voce di una vecchia
che salutava tutti quanti dicendo ciao”.
Lucio Dalla squarcia le porte del nuovo millennio con “Luna Matana”, ennesimo prodotto delle notti navigate al largo delle Tremiti. L’album prevede “Baggio Baggio”, dedica al fuoriclasse col codino – una nevicata caduta da una porta aperta del cielo – che all’epoca militava fra le fila del Bologna, squadra di calcio che ha tenuto ben salde le redini calcistiche del cuore di Dalla. Folgorante “Kamikaze” che, seppur sia stata scritta immaginando le azioni suicide nipponiche della seconda guerra mondiale, sembra sposarsi alla perfezione con gli eventi storici – l’abbattimento delle torri gemelle su tutti – che fanno da contorno ad un sanguinoso cambio di secolo. Conferisce un senso di remissiva impotenza “Domenico Sputo”, storia dell’uomo qualunque, maltrattato e tradito da quella donna che gli preferisce un comunissimo, e forse più presente, “Riccardo”. Ascoltare “Agnese delle Cocomere” – storico locale felsineo – è paragonabile ad una immersione nelle fresche primavere bolognesi, assuefatti al tintinnio delle posate, schiavi di una spensieratezza quasi trascurata, sospesa in attesa di chissà quale avvenire.
“Più che una finestra era un buco
uno squarcio di cielo nel cielo,
ma lì ero libero però e irraggiungibile
appoggiato sopra i gomiti
come su un fiume a settembre
aspettavo così
l’arrivo della sera”
Gli anni 2000, in tutte le loro contraddizioni, avanzano senza sosta. Continua il tragitto di Dalla attraverso nuove forme d’arte: il teatro, la studiata rivisitazione di pezzi lirici, la continua scoperta di talenti emergenti. Fra le onde di Piazza Maggiore tradotte nel 2006 in copertina dal genio di Milo Manara si intendono le vele oniriche di “12’000 lune”, raccolta corposa di testi fra cui compare un inedito inno alle proprie radici, la vivida “Dark Bologna”.
“Aspetto mezzanotte che il giornale comprerò:
Lo stadio, Il trotto, il Resto del Carlino.
Piove molto forte ma tanto non mi bagnerò
c’è un bar col portico, mi faccio un cappuccino
ma che casino, quanta gente, cos’è sta confusione?
C’è una puttana, anzi no: è un busone
Bologna, sai mi sei mancata un casino“
Ci avviamo verso la conclusione del nostro cammino attraverso Dalla, una traversata lunga, una pioggia copiosa di componimenti che, dai primi passi, conduce tristemente alle navate di “San Petronio”. Nel 2011, poco prima di chiudere gli occhi ed arrampicarsi alle gradinate dell’immortalità letteraria, Lucio Dalla ci consegna quello che è il suo ultimo disco: “Angoli nel cielo”. Album in cui è facile perdersi, naufragare nel vasto mare delle emozioni che suscita. Significativo e toccante il testo di “Controvento”, un addio sospirato, la sintesi estrema di una vita navigata alla ricerca di incorporee felicità fra le urla di sterminati temporali. Un’esistenza piena, vissuta, con le scarpe consumate ed un cuore sempre giovane a ventilare i suoi accordi nel petto.
“Conosciti,
controllati,
ricordati
non lasciare mai il timone
vai dove vuoi tu.
Il vento non sarà mai
il tuo padrone.
La vita è come il mare si,
il mare che è davanti a te”.