Scenario desolante, a prescindere dai repentini cambi di fondale. Il numero dei contagi, da un paio di giorni in calo ma pur sempre spaventoso, strazia il silenzio dei balconi. In rapida successione: scanzonate fonti di coraggio, avamposti di sentinelle avvelenate, poi mareggiate di lumi ancorati alla speranza (fra cieli disfatti e strade orfane di passi). Si sta così – sugli alberi le foglie, diceva il Poeta – nel sentimento ermetico della sopravvivenza, a far di conto con le leggi dell’epidemiologia e le assenze apparecchiate per cena.
Intanto la primavera, a discapito di qualche siberiana incursione invernale, comincia a far gemmare colori e profumi. Primavera vissuta in trincea fra chi, un tempo negazionista, ora è costretto ad una brusca collisione con la realtà e chi, un tempo considerato iettatore, si avvale di una vuota retorica forgiata su tre semplici parole: “lo dicevo io”. Nel mezzo, ancora, la violenta monotonia della disunione.
Accade che la regione del “mai più ultimi” veda avverarsi in pieno l’antologia delle proprie aspirazioni. La Campania, appunto, prima – fra le recalcitranti zolle di meridione – nel novero dei contagi, si prepara ad affrontare il suo picco mentre il governatore diventa star d’avanspettacolo per la platea “social”. Fra le granate mediatiche e la sindrome di Pyongyang c’è un comparto sanitario lasciato colpevolmente indietro, a poco serve appellarsi alla caduta del commissariamento (risultato facile se perseguito attraverso vagonate di tagli) se poco più di mille contagi segnano già il termine “collasso” sul barometro della sanità locale. Strutture carenti e macchinari ormai obsoleti fanno il paio con l’impegno profuso da professionisti che, in prima linea, ingaggiano la battaglia più probante al coronavirus. Non è coi lanciafiamme e la voce grossa in diretta su Facebook che si dipanano questioni cruciali. Sia chiaro: ben venga l’irrigidirsi delle sanzioni nei confronti dei riottosi alle misure preventive, ben venga l’inspessirsi dei controlli, ben vengano le chiusure di determinati settori produttivi, ma le minacce tese al sensazionalismo spicciolo non prospettano sviluppi concreti. Pura propaganda del terrore, funzionale allo sdoganare nidiate di giustizialisti disseminate per la ragnatela del web.
A livello nazionale sono svariati i punti di rottura con la realtà. Lo stacanovismo del governo – a cui va però imputato un ufficio stampa non all’altezza della situazione (pacifico, se ti affidi a comunicatori da “tugurio” del Grande Fratello) – incoccia con i movimenti di fronda interpretati dalle opposizioni. Determinata, in questo modo, la vocazione di un’Italia che si riscopre reincarnazione di Penelope: di giorno tesse i decreti, di notte li distrugge con dichiarazioni avventate. Chi si aspettava, nel 1964, che il “tintinnar di sciabole“ si sarebbe trasformato nel “cinguettar dei tweet”? Nessuno, eppure è successo. Disomogeneità di una nazione in cui l’unità non è mai stata fondamento cardine. Si vive d’invidia che langue e rimpingua le folte platee di chi sarebbe potuto essere – fortunatamente no – al governo se non si fosse eretto al ruolo di duce, dai soleggiati scranni – o cubi, per meglio dire – della riviera romagnola. Altro punto di rottura è dettato dall’assecondare i dettami di Confindustria, piegandosi alla paura – fondatissima ma poco etica, considerato il momento – del crollo verticale di produzioni e consumi tenendo aperti settori industriali che non realizzano beni di prima necessità, il tutto in contrasto con le direttive del decreto aggiornato sabato sera. Ore di tensione: i lavoratori pronti ad un – sacrosanto – sciopero generale e gli industriali, a loro volta, pronti al fermo diniego. Nella riproduzione, mai sopita, di un duello che da sempre tiene in scacco le sorti della Repubblica nell’aspra delegittimazione dei diritti sociali.
“Eppur si muove”. Il globo, del resto, prosegue la sua corsa al galoppo delle stagioni. Cartina al tornasole del dissesto mondiale è il rinvio – mai avvenuto prima – dei giochi olimpici che si sarebbero dovuti tenere a Tokyo la prossima estate. Venti di crisi spazzano le strade, le immagini di una New York deserta impallano i rotocalchi di mezzo mondo. Singolare contrappasso per chi, fino a qualche giorno fa, si mostrava risoluto e ammiccante al fuoco delle telecamere adagiate sul tappeto a stelle e strisce dello Studio Ovale. Il virus, irrefrenabile uragano di sofferenze, inizia a devastare il circuito neurale degli States. Anche la Gran Bretagna, nonostante il singulto isolazionista della Brexit, si trova a fronteggiare l’avanzata del Covid-19. Le giravolte di Johnson, dapprima fervido sostenitore dell’immunità di gregge (spasmo involontario di un’aplomb mai sepolta) ora si inginocchia invocando un tardivo – e non ben digerito dai britannici – “lockdown”. L’Europa intera, invocando coesione, si mostra disunita. Ogni singolo stato tutela i propri interessi, ristabilendo il controllo delle frontiere, ripudiando momentaneamente lo spirito di Schengen. Divaricazione che, a tempo debito, ci si augura venga tradotta in un nuovo e più inclusivo livellamento interno delle forze economiche e sociali. Provando a ledere, definitivamente, quelle divisioni che destrutturano il vecchio continente in nazioni di prima e di seconda fascia, fomentando – per essere precisi – l’eterno divario fra un nord sviluppato e un sud che arranca.
Alla fine della fiera cosa resterà? Un battaglione di deceduti da utilizzare – senza rispetto né memoria – come apriscatole parlamentari per legioni di sovranisti, o il viatico per imbastire le fondamenta di una nuova era illuminata e, magari, attenta alle esigenze di ogni classe sociale?
Ai posteri, come storiografia impone, l’ardua sentenza.