La notizia della chiusura dei reparti di pediatria – l’ennesima – degli ospedali di Eboli ed Oliveto Citra è di qualche giorno fa. E, anche questa volta, la decisione ha riscosso non pochi malcontenti. Non solo tra i cittadini che non saranno stati certo felici di scoprire che, in caso di necessità, dovranno allungare il viaggio e macinare più chilometri per poter curare i propri figli, ma soprattutto tra i sindacati che hanno accusato nuovamente Vincenzo De Luca e quella politica regionale che, secondo loro, “potenzia gli ospedali fantasma e penalizza gli altri”.
Ma ad Eboli, a parità di costi, chiude il reparto e resta aperto l’Acap, l’ambulatorio pediatrico di continuità assistenziale, aperto nei giorni festivi e prefestivi. L’unica differenza è che in questi ambulatori le prestazioni professionali dei pediatri di base vengono pagate a prezzi più che alti, circa 800 euro a turno per svolgere un lavoro che dovrebbero fare quotidianamente.
“Sta aumentando l’uso dei pediatri privati – ha spiegato Margaret Cittadino, Cittadinanza Attiva e coordinatrice territoriale del Tribunale per i diritti del malato di Salerno – perché i pediatri di base non vogliono e non sono messi nelle condizioni di fare il proprio lavoro. È tutto il sistema che non funziona, anche se il tasso di mortalità neonatale è basso nella nostra regione, bisogna investire anche perché sono in aumento le patologie autoimmuni e quelle oncologiche. C’è bisogno di maggiori investimenti e di un coordinamento migliore tra ospedali e territori”.
Mancanza di personale, – negli anni si sono registrati picchi di 13.500 dipendenti in meno rispetto al fabbisogno – liste di attesa infinite, medici che non svolgono il proprio lavoro, reparti in condizioni pessime, prevenzione oncologica ai minimi termini, mancanza o dirottamento di fondi e decreti che penalizzano la sanità pubblica. Inoltre, il 50% degli ospedali campani non rispetta i requisiti minimi previsti dalla legge. È questo il marasma in cui s’inserisce la vicenda dei reparti pediatrici che chiudono nella provincia di Salerno. E, ovviamente, questa situazione va avanti da anni.
Era febbraio del 2017 quando vennero assegnati alla Regione i fondi per i lavori di ristrutturazione e di adeguamento edilizio dei presidi ospedalieri pubblici in Campania. Più precisamente, la somma ammontava a 1,7 miliardi di euro da destinare alla sanità pubblica. Ma a quanto pare le risorse assegnate alla Regione non sono state utilizzate come si sarebbe dovuto. La Corte dei Conti ha, infatti, sottolineato che la Campania ha speso solo un terzo degli della somma totale (ricordiamo, 1,7 miliardi di euro) attribuita per l’edilizia sanitaria, cioè soltanto 535 milioni. Che fine hanno fatto, quindi, i fondi della sanità?
Ottenere una risposta a questo interrogativo sarebbe davvero cosa gradita. Ma per capire come si è arrivati a questo punto, bisognerà fare un passo indietro, imparare a comprendere una serie di tecnicismi fondamentali e procedere per gradi. Anzi, per livelli. Sì, perché si tratta proprio di una questione di “livelli” che permette ad alcuni reparti di rimanere aperti ed impone, invece, ad altri la chiusura, senza possibilità di appello.
La chiusura di alcuni punti nascita – non solo in Campania, ma in tutta Italia – è regolata da un decreto ministeriale che impone, adesso, la riorganizzazione del percorso di nascita e innalza gli standard quantitativi delle nascite. I punti nascita si dividono in 2 tipologie: quelli di primo livello, in cui rientrano i presidi ospedalieri con almeno 1000 nascite all’anno e senza diritto alla terapia intensiva neonatale e quelli di secondo livello, con più di 1000 – dalle 1500 in su – nascite annuali e la terapia intensiva neonatale.
Tutti i punti nascita che contano meno di 1000 nascite all’anno risultano, attualmente, a rischio chiusura perché il numero esiguo di interventi non consente di mantenere uno standard elevato durante le procedure e, mediamente, la quantità di casi in arrivo non è sufficiente a preparare il personale ad affrontare le rarità e le eccezionalità dei casi che normalmente si verificano in presidi più ampi.
Insomma, per dirla in parole povere: all’interno di questi presidi che registrano numeri minori, il personale medico non risulta adeguatamente “allenato” dati, appunto, i pochi parti in entrata rispetto agli standard regionali.
Esistono, tuttavia, alcuni casi in cui questo orientamento non è applicabile. Si tratta di quei punti nascita con pochi neonati che rimangono aperti per motivi geografici. In pratica, quei piccoli paesi e borghi da cui un ospedale più grande, con reparti adeguati, disterebbe almeno un’ora. Tuttavia, questi reparti, pur rimanendo aperti, non possiedono strutture e personale adeguati ad affrontare un’emergenza neonatale. Ecco, dunque, che la Regione ha previsto una soluzione di trasporto neonatale di emergenza con ambulanza attrezzata e personale a bordo specializzato, fino all’ospedale più vicino che possa accogliere la situazione di urgenza.
Ma qualcosa ancora non quadra e la situazione, ad oggi, è ancora più che precaria. Sì, perché attualmente questa equipe specializzata parte solo da Napoli. In questo modo, pero, partendo da Napoli, raggiungendo il piccolo centro e poi mettendosi in viaggio verso un ospedale attrezzato, il tempo che ci vuole è davvero troppo.
A Salerno, questo servizio è in via di allestimento e si sta provvedendo ad assumere il personale tramite dei fondi ordinari regionali che si spera non facciano la fine di quelli assegnati alla Regione Campania negli anni. Tuttavia, a quanto pare, i tempi di realizzazione non combaciano per niente. Infatti, i punti nascita nella provincia di Salerno e non solo continuano a chiudere, mentre non ci si è ancora attrezzati adeguatamente per far fronte alle emergenze. Quanto ancora dovrà soffrire la sanità pubblica della Regione Campania, prima di uscire da una situazione rovinosa e letale che penalizza pazienti e lavoratori e mette a serio rischio la salute pubblica?