Un italiano su dieci è in condizioni di povertà assoluta. Significa che una popolazione grande come quella del Lazio vive situazioni di privazione: di reddito, di salute, di diritti, di partecipazione politica, di istruzione.
Sono oltre 5,6 milioni i poveri “ufficialmente” dichiarati, cittadini dei quali non è possibile tracciare un identikit. Questo perché non c’è più un “tipo” di povero. Lo stato di indigenza può arrivare improvvisamente a seguito della malattia, della perdita di un lavoro che sempre più spesso è precario e irregolare, di una crisi di sistema come la pandemia o le conseguenze economiche del conflitto in Ucraina.
Possiamo conoscere chi sono i più deboli e coloro a rischio attraverso degli indicatori: geografici: il meridione del Paese più che il Nord, le periferie più che il centro delle città; demografici: gli anziani e i giovani in cerca di prima occupazione, così come i cittadini di origine straniera; sociali: le giovani famiglie con minori, coloro con disabilità e malattie invalidanti.
Leggendo il Rapporto sulla povertà di Caritas Italiana “L’anello debole”, presentato lo scorso 17 ottobre in occasione della Giornata mondiale di lotta alla miseria, emerge un quadro disarmante della situazione del nostro Paese. Uno studio curato ed essenziale che, puntualmente, ci aiuta a mettere in luce quelle che sono le maggiori criticità sistemiche. Allo stesso tempo, in quei dati, viviamo anche lo sconforto e l’indignazione di tanti allarmi lanciati e che sono puntualmente andati perduti. Di appelli, proposte, denunce non ascoltati. Del lavoro di migliaia di volontari che aiutano, soccorrono e servono ma che non sono considerati. Dal 2008, infatti, gli indicatori di povertà vanno progressivamente aumentando: se in quindici anni la povertà assoluta in Italia è triplicata, significa che è il modello economico e culturale di “sviluppo” che va ripensato, ponendo al centro i poveri in quanto più vicini all’interesse generale, al bene comune rappresentato dal valore supremo di ogni essere umano.
Il Rapporto, ancora una volta, dice che occorre intervenire sulle cause strutturali, “permanenti”, di tante forme di povertà, con politiche serie ed efficaci: sostegni alle famiglie, ai bambini; accesso al lavoro, salari e stipendi dignitosi e non al nero, accesso allo studio anche per chi non ha possibilità; disponibilità di alloggi con affitti calmierati, rilancio del servizio sanitario nazionale per contrastare lo scandalo delle liste di attesa per diagnosi e cure non rinviabili. Occorrono fondi che dovrebbero essere spesi bene attraverso programmi e progetti, come una revisione del Reddito di cittadinanza che per molti resta indispensabile. Invece si parla quasi sempre di occasioni sprecate, di propositi non attuati, di priorità che non sono condivise dalle forze politiche.
Tra le persone che si sono rivolte ai centri di ascolto nel corso dell’ultimo anno – 228 mila in Italia, 27 mila nella sola diocesi di Roma – sono molti coloro che non cercano beni o servizi, ma chiedono di essere ascoltati e consigliati. È il grande tema delle solitudini: un fenomeno multifattoriale che richiede risposte non solo economiche ma più spesso di natura sociale e culturale. Ciò chiama in causa le responsabilità e il ruolo delle istituzioni, il loro rapporto con il territorio e la società civile: l’occasione offerta dal Pnrr non può essere sprecata, le comunità locali, il Terzo settore, vanno coinvolte e agevolate per contribuire a una vera ripartenza collettiva.