Un premier che agisce nell’ombra, continuamente alle prese con le sortite propagandistiche dei suoi due vicepremier. L’avvocato del popolo, Giuseppe Conte, non ha occupato il dibattito sorto all’indomani della debacle elettorale del M5S, saggiamente ha atteso l’evolversi di una fase d’assestamento all’interno di un movimento squarciato dal sisma delle urne. Nel suo messaggio alla nazione, deciso è risuonato l’invito ai due litiganti di governo. “Se continuiamo a indugiare nelle polemiche a mezzo stampa, nelle freddure sparate sui social, non possiamo lavorare. Le riforme hanno bisogno di visione, coraggio, tempo, una cosa diversa dal collezionare like nella moderna agorà digitale”. Il paese precipita lentamente verso la recessione, il debito pubblico è alle stelle, lo spread grava sulle finanze pubbliche come non mai, l’Italia è isolata in Europa con una procedura d’infrazione da scongiurare ma ormai alle porte: il premier, ancora animato dalla possibilità di raddrizzare la rotta, ha chiesto col suo discorso un mandato pieno alle due forze di governo. Intende trattare lui con l’Europa come avvenuto in occasione della scorsa manovra di bilancio, per evitare contraccolpi sulla nostra economia. Innanzitutto, per evitare di inimicarsi ulteriormente l’Ue, stizzita dalle provocazioni di Salvini. Ma se qualcuno invoca un “rinnovamento” del contratto di governo, per adeguarlo ai nuovi rapporti di forza determinati dal voto, all’interno dei due schieramenti gli assetti, rispetto a qualche mese fa, sono profondamente mutati. Nel M5S, la debolezza di Di Maio rappresenta l’ostacolo principale. L’esito delle urne lo ha esposto a vari rischi, tra cui quello di vedersi sfuggire la maggioranza parlamentare per effetto di un ribollire sempre più crescente dei cosiddetti ortodossi, i grillini della prima ora capitanati dal Presidente della Camera Roberto Fico. L’uscita della festa della Repubblica dedicata anche a “rom, sinti e migranti”, per quanto corrisponda all’unica parte estrapolata di un discorso articolato, non può che essere un segnale a tutto il Movimento: non si può più assecondare, non si può più cedere. Il tentativo di tornare alle radici grilline, una visione del mondo prossima più alla sinistra che non al leghismo. Dall’altra parte, i colonnelli del carroccio spingono per tornare alle urne al più presto, pressano un leader ancora indeciso. Un leader che sguazza in una dimensione virtuale e che continua a giocare con le sorti economiche e culturali del paese con l’obiettivo di lucrare il massimo dei consensi. I due contraenti, dunque, sono divisi su tutto: flat tax, autonomie, Tav, sblocca cantieri, decreto sicurezza, legittima difesa. E il ricorso alla mediazione non costituisce più un’alternativa. Non per la Lega, forte dell’investitura elettorale. Non per il movimento guidato da Di Maio, che si è appiattito sulle posizioni dei sovranisti per quasi un anno con l’aggravante di averlo appurato solo a conti fatti. La Sindrome di Stoccolma di Luigi Di Maio rischia di consegnare integralmente il Movimento a Salvini. E, in tal senso, pesa l’annosa mancanza di strategia del M5S, così come un indirizzo programmatico in grado di impedire la continua negoziazione di principi spacciati come propri. Il Movimento è ormai un generatore di delusi. Per ogni ora che trascorre ancora al governo, decine e decine di elettori ritirano la fiducia. Preservare un patto di potere, conformarsi alle sue logiche, non salverà i cinque stelle da un’implacabile emorragia. Piuttosto che assistere a un estenuante braccio di ferro sulle spalle del paese, Conte non esiterà a rimettere il mandato nelle mani del Presidente Mattarella. Le elezioni anticipate sono ormai un’ipotesi concreta: escludendo l’attuale, nessuna maggioranza è possibile. Circolano già alcune date: 22 o 29 settembre, con lo scioglimento delle Camere in luglio e una campagna elettorale sotto l’ombrellone. Sulla sponda leghista del governo ogni pretesto è utile per staccare la spina ma la posizione attuale è assolutamente invidiabile: o i pentastellati si attengono al diktat imposto oppure, da favorito e scaricando le responsabilità sull’alleato riluttante, Salvini imboccherà la strada che conduce alle urne. E a un nuovo salto nel buio, nei pericoli incombenti dell’instabilità finanziaria e della speculazione, a ridosso di una manovra di bilancio lacrime e sangue (23 miliardi solo di clausole di salvaguardia da sterilizzare). O che, semplicemente, ci garantirà un deficit stratosferico, preludio dell’avvento della Troika. L’ultima coltellata al futuro del paese e quindi alle giovani generazioni. La politica, brandendo un aberrante cinismo, in un’abiura delle proprie funzioni, si adegua così ai vantaggi effimeri e sciagurati del presente, conscia che il domani non paga in termini di consenso.