Sta per arrivare il periodo dell’anno più ricco di tanti buoni quanto falsi propositi: “Dopo le Feste mi metto a dieta”;”Diventerò vegana”; “Da Gennaio vado in palestra”; “Dopo Capodanno mi metto sotto con lo studio”.
In tutta Italia, ma in modo particolare al Sud, si dà una grandissima importanza alla cena della Vigilia e al pranzo di Natale. Convivialità, scambio di regali, abbuffate, sono il lato più bello di questo periodo festivo.
Quello che portiamo in tavola a Natale non è semplice cibo, ma la memoria delle tipicità che cucinavano le nostre nonne e che si tramandano di generazione in generazione.
Il Cenone della Vigilia è il momento più sentito anche se, di fatto, quasi non ci si alza da tavola facendo un tutt’uno tra pranzo e cena, una vera e propria maratona senza fondo. Il menù campano della Vigilia, immutato e tramandato, è rigorosamente a base di pesce, perché il 24 dicembre è per tradizione e religione un giorno in cui non si mangia carne, essendo considerata cibo di lusso, al contrario del pranzo di Natale. Da ciò, l’invito a consumare cibo austero.
Tipicamente salernitano è cenare con una ricca insalata di rinforzo composta da olive, peperoni, cavolfiori e altre verdurine sott’aceto, seguite dai “broccoli di Natale” e dall’insalata di mare.
La tradizione cilentana propone invece come piatto tipico della Vigilia i cinguli cu’ l’alici (caratteristiche quelle di menaica, sotto sale, presidio slow food tipico di Marina di Pisciotta), ossia zeppole salate in abbinamento con il baccalà cucinato in diversi modi, ma tradizionalmente fritto con cicerchie, un antico legume molto diffuso nella coltivazione anche tra i più umili, in quanto necessitava di ridottissime quantità d’acqua. La scelta di questi prodotti era infatti una questione di convenienza, avendo buona conservazione e costi contenuti.
Classico primo piatto è invece lo spaghetto alle vongole rigorosamente in bianco o qualunque altra pietanza sempre a base di mare; il secondo spazia dal baccalà preparato in tutte le salse e capitone o anguilla fritti, seguiti da un misto di pesce fritto (si, ancora!) o al forno.
In chiusura si passa al dolce: scauratielli, ossia zeppole di Natale tipicamente cilentane, preparate solo con acqua e farina, successivamente fritte e passate nel miele, oppure i cazuncielli o pastorelle, una sorta di raviolo fritto ripieno con un impasto a base di farina di castagne, rum e cioccolata.
Accanto a questo menù di base, si inganna l’attesa della mezzanotte imbastendo centrotavola di frutta secca e dolcetti tipici come i mustaccioli, i susamielli, i roccocò, torroni; in Campania molto famoso è il torrone di Benevento, simbolo della città, prodotto dall’azienda dolciaria Alberti.
Durante questo continuo “mangiatòrio”, si parla, si gioca alla tradizionale tombola o a carte e i più impazienti cominciano a scartare i regali.
Con ancora la tovaglia sul tavolo, il giorno seguente si ricomincia la maratona per il pranzo natalizio con antipasti a base di insaccati e formaggi, primi piatti di pasta al forno, fusiddi al ragù cilentano, preparato con diversi tipi di carne locali e formaggio, e secondi di carne di agnello, capretto e coniglio ‘mbuttunato cilentano, ossia ripieno, ma, per chi si lancia in sperimentazioni, anche tacchino, anatra e faraona. Oltre a consumare i resti della cena della Vigilia, il pranzo di Natale si conclude con ogni tipo di dolce, dagli struffoli, al Tronchetto di Natale, un dolce tipico salernitano realizzato con pan di spagna, crema, cioccolato; e ancora pandori e panettoni artigianali.
Nel passato, a conclusione del pranzo, la tradizione cilentana prevedeva il consumo di nove frutti diversi tra cui arance, noci, noccioline, fichi secchi, castagne; il pinolo andava mangiato per ultimo perché simboleggia l’incenso dato in dono dai Re Magi a Gesù e quindi la Sua benedizione.
Il terzo giorno dei festeggiamenti, ovvero a Santo Stefano, come presi dal rimorso, si é soliti preparare un piatto di Tagliolini in brodo depurativo a base di carne e verdure a cui in realtà vanno inesorabilmente aggiunte le tonnellate di cibo rimasto dai giorni precedenti.
Dunque, reinterpretando il significato originario delle modeste antiche tipicità culinarie, si è sviluppato un rapporto strettissimo e sovrabbondante tra cibo, tradizione e festività natalizie: lo stare a tavola resta un motivo per cercare di protrarre la convivialità il più a lungo possibile, godendo di in un clima di allegria ed armonia familiare, approfittando anche del tradizionale “ceppo natalizio” attorno cui ci si riunisce e ci si riscalda con amici e parenti nell’attesa di sentir bussare alle porte gli zampognari, che intonano le loro nenie natalizie in cambio di un’offerta. Potrebbe sembrare paradossale, ma le tradizioni sono le uniche cose durevoli. Portano un’emozione antica e nuova creando una suggestiva ed emozionante atmosfera nel momento in cui le si vive. Non puoi dimenticarle, non puoi non ricordarle. È come se fossero fissate nel tuo inconscio e tornassero a galla in un atto di eterna, incurabile coazione a ripetere.