Il futuro di Internet tra lo strapotere delle piattaforme commerciali e la fuga nel Fediverso

“Sul Web dovremmo essere in grado non solo di trovare ogni tipo di documento, ma anche di crearne, e facilmente. Non solo di seguire i link, ma di crearli, tra ogni genere di media. Non solo di interagire con gli altri, ma di creare con gli altri. L’intercreatività vuol dire fare insieme cose o risolvere insieme problemi. Se l’interattività non significa soltanto stare seduti passivamente davanti a uno schermo, allora l’intercreatività non significa solo starsene seduti di fronte a qualcosa di interattivo”.

Così parlò Tim Berners Lee, l’informatico britannico co-inventore insieme a Robert Cailliau del World Wide Web, prefigurando quella che sarebbe potuta diventare l’attuale Internet. Lo sviluppo del web ha preso però delle vie molto diverse da quelle degli inizi, quando diversi servizi (posta elettronica, canali di messaggistica etc.) non erano per forza centralizzati a beneficio dei privati: oggi infatti Internet assomiglia sempre di più a un recinto strettamente controllato da aziende multinazionali e governi in cui gli utenti/clienti sono tutti schedati dalla polizia e messi a lavoro dalle Corporation. Dai primi rudimentali browser passando per l’avvento dei social network, siamo arrivati oggi ad un complesso sistema organico che con lo sviluppo del 5G ci porterà dentro la realtà della “Internet delle cose” con la messa in rete di oggetti con i quali entriamo in relazione nella nostra vita, dagli elettrodomestici ai dispositivi che funzionano da promemoria per le attività quotidiane.

Si può parlare di “infosfera” come di un luogo sempre meno virtuale che comprende il web largamente inteso assieme ai media tradizionali come radio e televisione: al centro di questo ecosistema abbiamo una prateria sconfinata nella quale le imprese provano ad estrarre profitti utilizzando qualsiasi mezzo a loro disposizione, basandosi sul modello del “capitalismo di sorveglianza” gestito da piattaforme transnazionali. Secondo Nick Srnicek, autore del libro Platform Capitalism: “La piattaforma è in realtà un modello di business piuttosto datato, ma è diventato molto più pervasivo con l’avvento della tecnologia digitale. Di fatto, una piattaforma è un intermediario tra due o più gruppi diversi. Possiamo pensare alle prime piazze dei mercati, ma la piattaforma come modello è decollata soprattutto con le tecnologie digitali negli ultimi 10 anni. Facebook, ad esempio, è un intermediario tra inserzionisti da un lato e utenti, sviluppatori di software e aziende che creano pagine e chatbot dall’altro.

Facebook riunisce tutti questi diversi gruppi e da essi trae il suo valore, e questo è un fatto abbastanza nuovo rispetto alle aziende più tradizionali. Queste piattaforme stanno diventando centrali nel capitalismo contemporaneo: sono, sempre di più, le aziende più redditizie, ricche e potenti del mondo”.

Questo meccanismo ha creato ormai dei veri e propri monopoli, per cui Facebook detiene il 75% della platea dei social network e della messaggistica, mentre Amazon, Google, Apple, Microsoft e pochi altri grandi soggetti completano il controllo del mercato per quanto riguarda le vendite online, i dispositivi hardware e il grosso del software utilizzato dalla maggioranza degli utenti web. Eppure, quando Tim Berners Lee preconizzava un mondo virtuale costruito da tante creazioni interattive di utenti che comunicano tra loro su un piano paritario, immaginava una strada virtuosa che l’umanità avrebbe potuto intraprendere: invece oggi siamo bloccati in pochi grandi ecosistemi proprietari e commerciali che dominano Internet, software aziendali ai quali regaliamo la nostra creatività e da cui riesce sempre più difficile uscire, pena la perdita di relazioni, affetti, guadagni e possibilità lavorative. Si parla spesso degli studi neurologici effettuati dalle multinazionali per “fidelizzare” gli utenti dei social network come Facebook e Twitter: sono stati spesi fondi ingenti dalle aziende affinché funzionino, attraverso specifici algoritmi appositamente programmati, quei meccanismi di gratificazione psicologica per cui diventiamo dipendenti dai vari like che ricevono i nostri post.

Il meccanismo è tanto semplice quanto sofisticato, l’algoritmo non è che una formula matematica che serve a creare un ecosistema dentro il quale siamo sempre più guidati ad avere comportamenti che da un lato ci gratificano e dall’altro aumentano la nostra permanenza dentro queste scatole virtuali. Possiamo pensare la cosa anche nei termini opposti ovvero al senso di vuoto e spaesamento che si prova una volta disattivato un account di un profilo che avevamo reso vivo e animato con parte dei contenuti e delle passioni delle nostre vite, con considerazioni personali e politiche: chi ha provato l’esperienza del deletefacebook può confermare come all’inizio ci si senta smarriti di fronte a un nulla che appare improvviso, recidendo di un colpo legami e volti quotidiani. Poiché siamo di fronte a dispositivi che incrementano dipendenze neurologiche, sono sempre dietro l’angolo disturbi e danni psicologici gravi, di depressione e simili. Altro aspetto problematico è quello della presenza stabile nelle piattaforme social di comportamenti offensivi, dallo stalking alla violenza psicologica presente nei diffusi flame aggressivi, tutti atteggiamenti che vengono tollerati se non incentivati dai social network solo perché comunque creano traffico e presenza in rete: le policy di intervento poi sono molto deboli e controverse, con algoritmi che censurano posizioni politiche reazionarie o progressiste a seconda dei casi e con una difesa delle minoranze e dei soggetti più deboli praticamente inesistente.

Questo accade perché la creatività interattiva cara a Berners Lee è stata canalizzata allo scopo del profitto di poche grandi aziende private, i cui dirigenti stanno accumulando fortune economiche smisurate e un potere crescente che supera spesso di gran lunga quello di intere economie di stati nazione. Mark Zuckerberg è uno degli uomini più potenti del pianeta e Jeff Bezos (il leader di Amazon) è il più ricco. Questo scenario decisamente negativo ha però anche un punto critico e di possibile svolta che è importante approfondire: Internet è stata canalizzata affinché gli utenti interagiscano tra di loro a favore del profitto e del controllo di pochi, dei governi e delle aziende, ma dentro l’infosfera resta sempre la possibilità che queste energie tornino ad essere diffuse in altre direzioni. In altre parole, esiste ancora la possibilità tecnica che il web venga decentralizzato e sottratto allo sfruttamento commerciale. Per quanto il discorso del controllo e della sorveglianza online sia alquanto complesso e sicuramente da approfondire separatamente (dallo scandalo della NSA e dalle rivelazioni di Snowden in poi dovremmo essere tutti consapevoli di come qualsiasi comunicazione in rete sia rintracciabile), quello riguardante la de-centralizzazione e l’uscita dalle piattaforme commerciali mi sembra che sia ancora meno diffuso e praticato.

Il punto di partenza potrebbe essere quello di ripensare al free software come un mezzo per utilizzare delle reti non commerciali già esistenti anche se poco conosciute, con degli algoritmi aperti e non creati allo scopo di tenerci legati in modo irreversibile dentro sistemi che servono al profitto di aziende sempre più potenti. Come esistono i sistemi operativi con codice aperto e condivisibile, come esistono Linux e BSD rispetto a Windows e ai dispositivi Apple, così esistono servizi internet liberi e non centralizzati, disseminati nel Fediverso (un termine che racchiude i concetti di federazione e universo), una galassia di social network basati su nodi decentrati e federati tra loro, popolati da milioni di persone: comunità in cui è possibile dotarsi di proprie regole. Uno di questi strumenti è ad esempio Mastodon, una piattaforma di microblogging simile a Twitter ma sviluppata con licenza pubblica (tutti possono contribuire a modificarlo), basata su singoli nodi chiamati “istanze”, che sono in relazione tra loro secondo policy decise autonomamente.

Ci si iscrive dunque non a Mastodon come social centralizzato, come invece accade per le piattaforme commerciali tipo Facebook o Twitter, ma ad una singola istanza (che può raccogliere anche pochi iscritti ed essere ospitata su un piccolo server gestito da un singolo) e quindi le varie istanze saranno federate e visibili nella timeline pubblica del singolo utente. In Italia l’istanza più grande è quella sviluppata dal collettivo di hacker bolognese “Bida” (mastodon.bida.im ad oggi ha raggiunto più di 5000 iscritti, in rapida crescita) ma ce ne sono centinaia sparse per tutto il mondo, da Mastodon.social, un’istanza generalista e molto frequentata, a quelle tematiche destinate agli amanti del free software o di singole vertenze come donteatanimals.org, che sin dal nome richiama una policy esplicitamente vegana.

Nel Fediverso ci sono molti altri social come Friendica, Misskey e GNU Social (simili a Twitter e Facebook), PeerTube (simile a YouTube), Pixelfed (simile a Instagram) e stanno arrivando sempre nuove proposte: un’ultima recente e molto interessante è quella di Mobilizon, un social che è pensato come alternativa ai gruppi e agli eventi di Facebook. Insomma, c’è tutto un mondo da scoprire e, per quanto gli ecosistemi proprietari siano sempre forti e detengano il monopolio quasi completo delle nostre comunicazioni virtuali, esiste la possibilità di staccarci e di fuggire da un mondo che sta diventando sempre più invivibile, come ci ricordano gli scandali ormai quotidiani che coinvolgono i giganti del web. Questa fuga nel Fediverso potrebbe rappresentare un ritorno alle origini di Internet, riprendendo quell’utopia di creatività e interazione di cui parlava il suo fondatore.

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