Avevo appena terminato il lavoro e il mio pensiero era solo quello di tornare a casa e riprendermi dalla prima calura estiva. Me lo ha impedito la telefonata del responsabile dei servizi sociali che mi chiedeva la disponibilità ad accogliere un ragazzo appena sbarcato nel porto di Salerno, insieme a tanti altri che riempivano una delle tante navi che in quei mesi avevano attraccato nello scalo salernitano, carichi di tante vite dimenticate, abbandonate per giorni nel nostro mare e a volte salve per miracolo. Se vogliamo chiamare miracolo l’impegno delle ONG impegnate nel Mediterraneo, alla affannosa ricerca di vite da accompagnare sulla terraferma…
Così, mi sono precipitato. Lo scenario era quello solito: i gazebo, le forze dell’ordine, i tanti uomini incamiciati, cosa che fino a quel momento avevamo visto solo in tv e che, purtroppo, in questi anni abbiamo imparato a vedere di continuo.
È difficile descrivere il volto di queste persone, un misto di sofferenza per i giorni di mare, per le violenze subite, per la paura di non farcela, per l’angoscia di aver lasciato la propria casa e magari quel che resta della propria famiglia, e la gioia per aver finalmente toccato terra: ciò che hanno anelato per chissà quanto tempo, con la speranza di aver trovato un futuro per se stessi e per i propri cari. Il volto segnato dal mare e dal sole, il corpo ricoperto dalle piaghe causate dal gasolio dei motori. Il viso scavato dalla fame e dalla sofferenza e la pelle che molto probabilmente non si riprenderà mai più e lascerà su di loro i segni indelebili di quel che la vita ha destinato loro: nascere nel sud del mondo, sfruttato da tutti, da parte della propria gente, ma anche da parte di chi, da quest’altra parte del globo, li rifiuta e li preferirebbe morti.
Perché alla fine di tutto il nostro problema qual è se non negare a noi stessi questo scempio? Nasconderlo ai nostri occhi? Molto più semplice piangere la loro morte in mare, scandalizzarsi per il puntuale naufragio, oppure per i veri e propri campi di prigionia sulle coste del nord Africa. Poi il racconto dei Tg finisce, si cambia canale, ognuno è preso dalla propria vita, il mare – male è lontano da noi.
Troppo facile! Sì, troppo facile. Perché poi quando li incontri, così com’è stato con Jair, devi fare i conti con tutto questo. Non è più così semplice spegnere la tv. I suoi occhi sono una miscela di rabbia e vergogna, voglia di urlare e il silenzio della rassegnazione.
E tu sei lì, anche tu preso tra due fuochi: il petto gonfio dell’eroe che salva gli ultimi e la consapevolezza di essere parte della responsabilità di tutto questo.
Ciao. Come ti chiami? Sono qui per darti una mano. Se vuoi puoi venire con me, posso aiutarti, ti accompagno a casa, potrai mangiare qualcosa, riposarti, cambiarti… Solo un sì con la testa. Non è neanche chiaro se abbia davvero capito quello che ho detto, oppure il “sì” e solo quello che ha imparato a dire in tutto questo tempo, per obbligo, per non soffrire di più…
Il tempo di sistemare le scartoffie della burocrazia e siamo in auto, diretti verso la comunità che lo accoglierà fin quando lui vorrà, ma soprattutto fin quando sarà riuscito a conquistare la sua autonomia.
Nei giorni seguenti il racconto di Jair e penetrante, si insinua sotto pelle fino a toccare la carne viva e non c’è verso di scrollarti di dosso il peso delle parole, che anche se non articolate in frasi perfettamente costruite sono chiarissime. E anche quando non lo sono basta guardargli gli occhi, la bocca, coglierne le smorfie.
Ha solo sedici anni, primo figlio di una famiglia numerosissima, come comunemente ci si aspetta. Abbastanza grande da essere lui il prescelto, colui che salverà se stesso e la propria famiglia affrontando il viaggio verso la terra promessa: Europa, Italia, quella che in un pezzo di mondo guardano in tv come noi per anni abbiamo guardato le mille luci degli Stati Uniti. La loro America siamo noi, con i nostri falsi lustrini e le tante luci dei set televisivi.
Luogo di partenza Costa d’Avorio, uno dei Paesi africani più ricchi in termini di materie prime ma con il quaranta per cento della popolazione sotto la soglia di povertà (ma anche questa è storia vecchia…), falcidiato da guerre civili e da scontri interetnici. Tanti, tantissimi ragazzi e giovani scappano. Jair è uno di questi. Il percorso è molto simile a tanti altri: il lungo viaggio verso la Libia, il campo di detenzione, le violenze subite, la partenza sempre rimandata.
“Poi, d’improvviso, una notte, ti dicono che tocca a te e allora vai, pensi che sia arrivato il momento, che finalmente il calvario sia finito. Raccogli le poche cose che hai, con le poche forze che ti rimangono. Riesci a stare in piedi solo per la forza di volontà, ti dà il coraggio la speranza che il buio sta per terminare. Ma appena metti il naso fuori dalla baracca, capisci che sta per iniziarne un altro di calvario: spinte, urla, ti ritrovi sulla barca senza neppure sapere come ci sei riuscito. Insieme a te sono in tanti, tantissimi. Ma non è finita! Prendiamo il mare, un tempo interminabile, soli, completamente abbandonati a noi stessi. Io ho pensato di morire. Ricordo una ragazza che era con me: mi chiedeva di continuo di stare sveglio, di non addormentarmi per il rischio di cadere in acqua o di morire asfissiato tra i corpi dei tanti che erano con noi e le esalazioni del gasolio che era dappertutto, sui nostri piedi e sui nostri corpi. Poi finalmente ci hanno trovato e fatti salire sulla loro nave. Non chiedermi chi fossero, non ricordo, so solo che ero talmente impaurito perché pensavo che quella nave ci riportasse indietro, nell’inferno del campo, oppure che chissà cosa potesse accaderci ancora. Fortunatamente non è stato così e ora sono qui. Insieme a me ci sono altri ragazzi. Ho avuto modo di parlare con loro della mia storia e anche se ognuno di noi si porta dietro il proprio vissuto e le proprie esperienze, le nostre storie sono molto simili, fatte di atrocità, paura, violenza e tanta, tanta speranza.”
Jair ancora porta sulla propria pelle i segni di tutto ciò che racconta e non è un modo di dire, i segni ci sono davvero. Quelli che si vedono… Poi c’è quello che non si vede, che resterà per sempre nella sua testa e nel suo cuore. Certamente lo accompagnerà la preoccupazione per la sua famiglia, così lontana, e soprattutto la preoccupazione di dover quanto prima racimolare la somma che i suoi hanno dovuto pagare per permettergli il viaggio della speranza.
“Soltanto uno può tentare. Non ci sono abbastanza soldi per far sì che più elementi della famiglia possano venire in Europa. Perciò si mettono insieme un po’ di soldi, si fanno tanti debiti e poi si sceglie il figlio che deve immolarsi e che poi avrà il compito di pensare a chi resta. Inoltre, dobbiamo restituire i soldi presi in prestito, perché il timore che ci possano essere delle ritorsioni verso i nostri cari è troppo forte.”
Questo è il motivo per il quale appena toccano le nostre coste questi ragazzi hanno voglia di mettersi subito all’opera. Lavorare, lavorare, lavorare! Questa è la parola d’ordine, qualsiasi cosa sia. La priorità è quella di guadagnare subito qualche euro da inviare a casa. E anche solo qualche spicciolo fa davvero la differenza…
Certo, purtroppo, molti di questi ragazzi, soprattutto quelli più adulti che vivono un percorso differenziato rispetto ai più giovani, rischiano di cadere nelle mani di gente senza scrupoli, che sa di trovare in loro facile manovalanza per lavori leciti e meno leciti.
Ma questa è tutta un’altra storia. Adesso abbiamo voluto raccontare un pezzo di vita dei tanti che si affollano sulle coste africane (senza dimenticare la cosiddetta rotta balcanica), per scappare da qualcosa. Che sia la fame, che sia la guerra, che sia la violenza, cosa importa. Chi siamo noi per impedire a qualcuno di migliorare la propria esistenza e quella dei propri figli, ma soprattutto chi di noi non lo farebbe al loro posto e quanti di noi non pagherebbero qualsiasi cosa pur di trovare dall’altra parte del mondo qualcuno che, vedendoli, apra le proprie braccia e non tenti di affondare la loro barca oppure innalzi nuovi muri?