Nelle scorse settimane Giannīs Antetokounmpo, ragazzone greco alto 211cm e dall’apertura “alare” di 222 cm si è laureato campione NBA coronando il sogno di una vita.
Partito dai vicoli di Sepolia, quartiere popolare di Atene, Giannīse i suoi fratelli Thanasīse Kōstassono arrivati sul tetto del mondo riuscendo a diventare i primi tre fratelli nella storia NBA a vincere un anello.
Alle origini del mito
Correva l’anno 1991 e Charles e Veronica Adetokunbo, esasperati dalla vita di stenti che conducevano a Lagos, capitale della Nigeria, decisero di scappare dal Paese natio intraprendendo un lungo viaggioche, dopo mille peripezie, li avrebbe portati in Grecia, e più precisamente ad Atene.
Sin dai primi giorni, la vita dei coniugi Adetokunbo nella città di Aristotele e Platone non è semplice: nessuno dei due ha un lavoro stabile, entrambi sono irregolari e vivono con l’ansia perenne di essere scoperti ed espulsi.
Date le scarse risorse economiche a disposizione decidono quindi di stabilirsi nel poverissimo e multietnico quartiere di Sepolia, uno dei più poveri e degradati delle città.
Il 6 dicembre 1994 i coniugi Adetokunbo mettono alla luce il terzogenito maschio cui viene dato il nome di Giannīs.
La vita di Giannīs sin dai primi anni di vita è difficile.
Così come i suoi fratelli, la mattina è impegnato a scuola mentre il pomeriggio, subito dopo aver mangiato quel poco che la tavola offre, indossa le vesti del venditore ambulante e va a vendere qualche cianfrusaglia per le vie dei quartieri popolari di Atene.
Come candidamente ammesso dallo stesso Giannīs in una recente intervista, dal successo nelle vendita deriva la sopravvivenza dell’intera famiglia, nel vero senso della parola.
Quando non si riesce a vendere nulla, quel poco cibo a disposizione viene dato ai fratelli più piccoli, mentre i più grandi vanno a letto senza cena.
Un’infanzia durissima vissuta in uno stato di povertà assoluto che però ha permesso a Giannīsdi forgiarsi come uomo dal punto di vista mentale ancor prima che dal punto di vista fisico.
L’unico svago degli Adetokunbo è il campetto di basket vicino casa dove, insieme al fratello maggiore Thanasis, Giannīs inizia a fare i primi tiri a canestro senza poter immaginare che quel passatempo un giorno sarebbe diventato un lavoro, o meglio una fonte di sostentamento.
Giannīse Thanasis continuano ad andare al campetto ogni pomeriggio, dividendosi l’unico paio di scarpe disponibile in famiglia e vivendo con una perenne spada di Damocle sulle spalle: l’essere fermati dalle forze dell’ordine ed essere espulsi.
Un giorno, mentre giocano spensierati al campetto, vengono notati da Spiros Velliniatis, allenatore di basket attivo nel sociale che spesso andava in giro per i quartieri poveri di Atene alla ricerca di ragazzi da “ingaggiare” nella propria società per salvarli dalla vita di strada.
E così Giannīs, a 14 anni, inizia a giocare nel Filathilikos, società di cui vestirà la canotta fino ad arrivare nella Serie A2 greca.
Di colpo, quello sport praticato per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano diventa un potenziale mezzo di sostentamento e Giannīs, nonostante sia estremamente grezzo dal punto di vista tecnico, inizia a lavorare duramente per regalare un futuro migliore alla sua famiglia.
Spesso si allena fino a notte fonda alternando la scuola, il lavoro e gli allenamenti e ancor più spesso dorme direttamente in palestra per svolgere l’allenamento mattutino prima di andare a scuola.
Nonostante i progressi nello sport e le prime soddisfazioni, Giannīs continua a essere un apolide. Triste destino che accomuna i figli di immigrati irregolari nati in Grecia e negli altri paesi europei che seguono una rigida politica sull’immigrazione.
I primi anni da giocatore sono difficili. Nessuna squadra della Serie A di basket greca ha il coraggio di dare fiducia a quel diamante grezzo dal fisico prorompente ma dalla tecnica ancora rivedibile.
Giannīs pare quindi destinato all’ennesimo fallimento finché un giorno la sua vita cambia per sempre.
È il 27 giugno del 2013 e i Milwaukee Bucks, franchigia reduce da stagioni poco entusiasmanti, lo scelgono al n.15 del Draft NBA.
Di colpo la Grecia si accorge di lui e dopo 19 anni da irregolare a Giannīs viene concessa la cittadinanza per meriti sportivi. Finalmente viene iscritto all’anagrafe e il cognome Adetokunbo viene adattato in Antetokounmpo, in modo tale da enfatizzare l’appartenenza al popolo ellenico.
Nonostante gli scarsi mezzi tecnici e nonostante un fisico tutt’altro che formato dal punto di vista muscolare, ben presto gli addetti ai lavori si interessano a lui e capiscono che se uno con quel fisico riesce a difendersi in NBA senza saper di fatto tenere la palla in mano, con un paio di anni di allenamenti potrà fare sfracelli. E così sarà.
Nel giro di pochi anni, aiutato anche da una leggenda come Kobe Bryant che lo segue nelle sessioni estive di allenamento e lo incorona come suo successore, Giannīs diventa uno dei migliori giocatori di tutta la NBA e lo fa lavorando con la stessa fame e la stessa intensità con cui si allenava nella palestra di Sepolia.
L’anno scorso, dopo stagioni di apprendistato nella Lega di basket migliore al mondo, il greco viene nominato il miglior giocatore della Stagione Regolare.
Le aspettative attorno a Giannīse ai suoi Bucks sono altissime ma complici anche le difficoltà portate dalla pandemia vengono clamorosamente eliminati alle semifinali di Eastern Conference per mano della rivelazione Miami Heat.
In quel momento, il primo veramente complesso della carriera del greco, sia in Patria che negli States Giannīs torna a essere il giocatore di colore, apolide di origini nigeriane, che per evidenti limiti tecnici non potrà mai vincere un anello.
La situazione a Milwaukee d’improvviso diventa esplosiva tanto che alla vigilia di questa stagione continuavano a rincorrersi le voci secondo le quali Antentokounmpo avrebbe manifestato ai Bucks la sua intenzione di andare via.
Quelle voci, tuttavia, sono del tutto infondate tanto che lo stesso Giannīsè costretto a smentirle con una veemenza e una rabbia mai viste negli anni precedenti dichiarando: “Milwaukee mi ha dato l’opportunità di essere un giocatore NBA quando nessuno pensava che potessi diventare un giocatore di Serie A greca. Tutti qui, dai tifosi, ai magazzinieri, ai dirigenti, hanno creduto in me dal primo giorno come mai nessuno ha fatto in precedenza. Non lascerò Milwaukee finché non vinceremo un anello e vi assicuro che lo vinceremo presto”.
Parole profetiche che, oltre a manifestare l’umiltà e la determinazione del greco, ci raccontano alla perfezione la forza mentale che accompagna Giannis sin dai primi anni di vita. L’infanzia trascorsa in quella straordinaria palestra di vita che è Sepolia ha dato ad Antetokounmpo una forza mentale diversa rispetto a quasi tutti gli altri giocatori della Lega.
E così, dopo un anno difficile in cui si è giocato ogni due giorni, in una stagione in cui nessuno puntava su di lui e sui Bucks, alla fine Giannīs è riuscito a portarsi a casa il suo primo titolo NBA.
L’ha fatto segnato 50 punti nell’atto conclusivo delle Finals giocate a quasi 40 punti di media.
L’ha fatto affrontando il basket come un gioco e come un lavoro, mosso dallo spirito olimpico di quella Grecia che gli ha dato i natali ma che per 19 anni gli ha voltato le spalle facendo finta che lui e la sua famiglia non esistessero. L’ha fatto con la convinzione che nello sport, così come nella vita, si può perdere ma l’importante è lavorare ogni giorno per diventare i migliori.
Nel giro di tre anni, tre dei fratelli Antetokounmpo sono riusciti a vincere un anello NBA.
Sono riusciti in questa straordinaria impresa senza mai dimenticare le sofferenze, la fame, i sacrifici e il duro lavoro. Senza mai dimenticare che nella loro vita hanno dovuto conquistarsi ogni singolo dollaro guadagnato nei vicoli di Sepolia e Oltreoceano, convinti del fatto che se Madre Natura non li avesse premiati con un fisico fuori dal comune probabilmente sarebbero ancora nei vicoli di Atene a lottare per guadagnarsi un pasto.
L’avrebbero fatto da apolidi, da irregolari senza cittadinanza, senza diritti e senza dignità come accade a centinaia di migliaia di persone che ogni anno giungono in Europa nel tentativo di crearsi un futuro migliore ma a cui, troppo spesso, non viene riconosciuta la dignità che si deve a un essere umano.
Nei giorni in cui sui social continuano a montare le polemiche relative alla scelta del CIO di nominare quale portabandiera olimpica un’eccellenza italiana come Paola Egonu, è di colpo tornata al centro del dibattito la questione relativa allo jus soli. La mancanza di diritti genera emarginazione, l’emarginazione genera odio, l’odio genera violenza.
Resta la convinzione che fino a quando continueremo a considerare il colore della pelle una diversità non spezzeremo le catene del razzismo latente che permea le società occidentali più di quanto abbiamo il coraggio di ammettere.