“Non siamo qui a conoscere il personaggio famoso, o a ricordare una storia che non ci appartiene più, ma a trasmettere valori”. Esordisce così, una sorridente e appassionata Fiammetta Borsellino, accolta calorosamente dagli studenti e dal corpo docenti dell’Istituto Galilei-Di Palo di Salerno. Un incontro di assoluto rilievo per gli studenti dell’istituto, che hanno avuto l’opportunità di interagire con la terzogenita del giudice Paolo Borsellino e di ascoltare dal vivo la sua testimonianza. “In un’epoca in cui vengono troppo spesso diffusi esempi negativi – spiega il Dirigente Scolastico Emiliano Barbuto – questo è il controcanto del Galilei”.
La figlia del giudice palermitano sembra quasi voler smitizzare la figura del padre, si dichiara ostile alle celebrazioni e alle “sfilate” che troppo spesso rivelano un’antimafia di facciata esibita negli anniversari, prescindendo dallo scopo primario, il diritto di rivendicare concretamente la verità: “Mio padre non era un eroe, gli eroi sono lontani da noi. Dire che erano eroi significa scaricare le proprie responsabilità. Mio padre era una persona normale che faceva il suo dovere e affrontava le conseguenze della paura. Il suo è stato un atto d’amore nei confronti della propria terra. Considerarli eroi corrisponde a una delega. E la lotta alla mafia non si può delegare, ciascuno deve fare la propria parte”.
La tenacia di una donna lacerata dal dolore per la morte di suo padre, rimasto vittima della barbarie mafiosa perpetrata in via D’Amelio, ma in prima linea nella ricerca della verità. Verità ostacolata dagli innumerevoli depistaggi e dagli apparati deviati dello Stato: “Se qualcuno avesse fatto il proprio dovere nei minuti e nelle ore successive alla strage, avrebbe ostacolato i depistaggi. Adesso occorre un contributo di onestà da parte chi sa. Se oggi si conoscono alcuni aspetti organizzativi della strage è anche merito dei pentiti”. Ma Fiammetta Borsellino è innanzitutto la prima erede di un complesso di valori che l’esempio di suo padre Paolo ha trasmesso a un’Italia, soprattutto quella meridionale, succube del “puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità”. “Per combattere la mafia, la prima cosa da fare è riconoscere il mafioso che è in ciascuno di noi. Noi siamo un po’ mafiosi quando cediamo alle scorciatoie, ai favori, a un aiuto non dovuto. Siamo un po’ mafiosi quando portiamo avanti una mentalità basata sul sopruso e sulla sopraffazione. Come ripetevano mio padre e Giovanni Falcone, la mafia si sconfiggerà con quel movimento culturale e morale che deve necessariamente coinvolgere le nuove generazioni. Ragazzi, le organizzazioni criminali vivono perché si nutrono del consenso dei giovani. Quando i giovani le negheranno il consenso, la mafia verrà definitivamente sconfitta e si potrà sentire quel fresco profumo di libertà”.
L’aula è attraversata dal fermento dei ragazzi: si preparano domande, si attende una figura che ha assunto un valore diverso, forse più familiare, dopo la proiezione del film sul giudice, interpretato da Giorgio Tirabassi, che i docenti, insieme ad altre testimonianze sull’opera del giudice, hanno somministrato agli studenti nei giorni scorsi per colmare un digiuno figlio innanzitutto della distanza temporale da quella stagione di sangue. Che sia questo per loro un momento decisivo per l’acquisizione di un maggiore senso di legalità e per la possibilità di riconoscersi in un processo di cittadinanza attiva, lo decreterà il tempo. Di sicuro la storia ha colpito i ragazzi, il lato più intimo della vicenda personale del giudice e della famiglia è oggetto di domande formulate con l’impaccio della timidezza (la Borsellino li esorta a darle del tu, i ragazzi annuiscono ma poi non si trattengono dal rivolgerle il voi, che in Sicilia ben si associa a un linguaggio quantomeno connivente con la sfera mafiosa). Come ha fatto a superare un lutto così tremendo? Come si può reagire a un dolore così devastante, così pubblico? “Io non ho mai creduto che la morte di mio padre, per quanto prematura, potesse provocarci un dolore maggiore rispetto a qualsiasi altro ragazzo e ragazza che perde un genitore per cause non naturali. Ovviamente il 19 luglio non ci è piombato addosso di punto in bianco, quando hai un minimo di consapevolezza per capire il valore di un lavoro come quello di mio padre, convivi con questa possibilità legata alla perdita. Ma nello stesso tempo la vita va avanti, si innescano dei meccanismi che io chiamo “di sopravvivenza”, per cui la vita continua a scorrere in qualche modo, non ci si può fermare”.
La pratica dell’antimafia quotidiana, a più riprese invocata dalla Borsellino, decreta la possibilità di non rendersi schiavi di un sistema mafioso, anche il più subdolo. Vengono snocciolati esempi pratici, che toccano da vicino le esistenze di ognuno dei ragazzi presenti. Comportamenti non semplicemente stigmatizzati ma di cui si evidenzia il danno per la collettività. Ma un’indispensabile coscienza deriva dalla capacità di trarre esempio dalle figure e dalle vicende del passato, da un costante esercizio di memoria. “Non perdiamo la memoria. Chiediamo la verità. Senza verità è compromesso il vostro futuro. Le ferite sanguinanti sono un ostacolo al futuro dell’intero paese. Dobbiamo pretendere risposte e non sfilate”. Ma allora, qual è la più grande eredità di Paolo Borsellino? “Siete voi l’eredità di mio padre. L’eredità più grande sono i valori. Vivono indipendentemente dall’eliminazione fisica delle persone. La vita prevale così sulla morte.”
“Non li hanno ammazzati, le loro idee cammineranno sulle nostre gambe”, recitava uno dei più celebri striscioni della Primavera di Palermo, retto da studenti in corteo contro le mafie. Al Galilei-Di Palo di Salerno, questa mattina, si è mosso un ulteriore e significativo passo di un incessante cammino verso il fresco profumo di libertà.
(Montaggio a cura di Lorenzo Moscariello)