Per chi volesse avere l’ebbrezza di rivivere i fotogrammi iniziali del celebre film di Rosi del 1963, “Le mani sulla città”, basterebbe oggi semplicemente noleggiare un drone e guidarlo sopra le case della cosiddetta zona orientale di Salerno.
Quelle aree che un tempo definivano il limite della città compatta, sono oggi scenario ancora “drammatico” di trasformazioni sensibili della città, prestandosi però ad una più edulcorata somiglianza con l’agglomerato urbano napoletano ritratto nella pellicola. A paragone, forse la nostra ambientazione è giovata dalle forme con cui i fatti oggi accadono, ma non lo sono sicuramente le vicissitudini sociali e politiche degli uomini che queste trasformazioni le stanno compiendo e, diversamente da quanto denunciato dal regista, il copione si ripete ancora, soltanto in modo più ovattato.
Per fortuna, nello specifico nostro, non si può parlare di un equivalente Edoardo Nottola (il protagonista vittima e carnefice delle sue stesse azioni ritratto nel film), ma forse di tanti suoi piccoli pezzi, esplosi e interpretati dai tanti altri uomini d’oggi che, muovendosi nella stessa direzione, spinti da accomunabili propositi (ma non da una stessa visione, anzi probabilmente senza una visione), non sembrano discostarsi troppo da quei fatti immaginati ormai quasi sessant’anni fa.
Una di queste prossime ambientazioni sta senz’altro diventando l’estesa area della nota “ex fabbrica Marzotto”.
Questa apriva le porte a Salerno esattamente sessant’anni or sono, per volere del lungimirante industriale laniero Gaetano Marzotto junior che, trovato il modo di investire nell’ industria chimica fiorente degli anni, aveva combinato le giuste risorse per impiantare ulteriori stabilimenti produttivi, dislocati lungo lo stivale, tra cui anche uno, appunto, a Salerno. Nell’opificio disposto lungo via Generale Clark, costruito in cemento e mattoni a vista e caratterizzato dalla tipica serie parallela di tetti “a shed” (una falda inclinata e l’altra perpendicolare e vetrata per massimizzare l’aria e la luce) si producevano abiti, per lo più maschili. Da immettere non più solo sul mercato italiano, ma anche su quello internazionale, offrendo così una volta in più alla nostra cittadina di provincia – all’epoca governata dal longevo sindaco Alfonso Menna – di prendere parte al famoso “miracolo”.
Oltre 1200 dipendenti hanno confezionato capi fino al 1983, anno in cui cessa l’attività della fabbrica. Non è ignoto che molti di questi sono morti per aver contratto un tumore alla prostata o alla mammella, riconducendone inevitabilmente le cause all’esposizione prolungata alle polveri sottili d’amianto, quel dannato materiale che al nostro Bel Paese – lo abbiamo imparato – prima ha dato e poi ha tolto. Per molti di essi non è stata ancora debitamente fatta giustizia (vedasi il ricorso Inps in Corte di Cassazione che ha riaperto il caso nel 2017) ma più di tutti, quella piccola porzione di territorio non sembra doverne meritare alcuna. Già, perché dal giorno della sua chiusura, fino ad oggi, nulla più l’ha coinvolta nello sviluppo economico della città, che di fatto si è progressivamente de-industrializzata per seguire la sua natura di città prevalentemente commerciale.
Varrebbe la pena, a tal proposito, discutere sul tema dei siti industriali dismessi, questione prossima a quella della archeologia industriale, e su come sia stata affrontata in sede di pianificazione dall’amministrazione, che in nessun altro modo ha pensato un futuro per le nostre fabbriche abbandonate se non mediante l’agevole rifunzionalizzazione commerciale (vedasi il caso delle Cotoniere, ex Manifatture Cotoniere Meridionali) nel migliore dei casi, oppure combinando l’uso commerciale a quello residenziale.
È questa la prossima storia che si vorrebbe scrivere per l’area “ex Marzotto”, per cui la RCM Costruzioni – Gruppo Rainone ha la proposta progettuale in corso di approvazione in sede comunale di un “retail park” e “tre torri residenziali disposte e orientate a ventaglio”, superiori ad un’altezza di ben 50 metri. Nulla di nuovo sotto questo cielo, se non ancora soltanto case e centri commerciali. Ma, si sa, le strade per l’inferno sono lastricate di buone intenzioni, perciò è nel merito degli obiettivi che si può incardinare una critica produttiva.
Nel comparto urbanistico CR_30, come denominato da PUC, la mole di nuova costruzione e volumetria è considerevole.
Da un lato, il minuto edificio commerciale di progetto, mirerebbe a fortificare il tessuto economico urbano riproposto nella veste solita – come anticipato – di centro per gli acquisti. Le sue forme, una volta abbattuto per intero il vecchio opificio, nell’immaginario collettivo tenderebbero a “recuperare la memoria del vecchio” comunque mediante una falda di chiusura inclinata, soltanto che nuova. Dunque, preso atto della presunta impossibilità del progettista di proporre un benché minimo quanto auspicabile recupero del già costruito, non sembra restare altra scelta che abbattere e ricostruire le stesse forme.
Dall’altro lato, in maniera più ampiamente vistosa, i tre nuovi giganti (o mostri?) residenziali provano a scontare la pena della “rottura” dello skyline urbano, addolcendo il loro frastuono paesaggistico con i profili di facciata frastagliati e a terrazze. Una scelta che sembra essere entrata di moda nella smania palazzinara delle provincie italiane dopo che l’architetto Stefano Boeri ne ha realizzato uno solo, per ora, a Milano. Il tutto, pittorescamente imbellettato nelle solite immagini di rendering su sfondo di alberi, animali e giochi d’acqua, a cui soggiace l’altro elemento essenziale della tipica – diciamolo pure – speculazione edilizia: la grande, larga, piastra dei parcheggi interrati, per evidenziare la chiara posizione in merito all’altro caldo tema della mobilità sostenibile.
Ma probabilmente, quello che più conta, a chi i soldi per trasformarela città (o sfigurare?) ce li continua a mettere, non è attenersi ad un’idea di piano urbanistico che – secondo chi scrive – si è ormai fortemente allontanata dall’idea di città giardino perseguita dal piano Bohìgas sotto l’amministrazione De Luca. Il vero e mero obiettivo restano le case, la superficie utile di pavimento vendibile delle nuove unità residenziali che, attraverso l’alta densità, aumentano, mentre il trend demografico della città esprime esattamente l’opposto.
Infine, resta irrisolto il passaggio cruciale della Mobilità. Come sottoscritto dal consigliere di opposizione Gianpaolo Lambiase nella diffida protocollata di recente al Comune, il progetto “modifica il tracciato interno della via comunale, posizionandola a bordo del lotto ed in adiacenza alla linea ferroviaria. Questa scelta impedirà l’allacciamento diretto della nuova rete di viabilità comunale, comportando la necessità di una ulteriore variante che va oltre i confini del lotto CR_30”. Dunque solo l’inevitabile necessità funzionale della circolazione viabilistica potrebbe destare la consapevolezza di una “re-visione”.
Chissà se oggi, Edoardo Nottola, non avrebbe trovato comunque il modo di finalizzare la realizzazione di un progetto ricorrendo allo strumento, tutto nazionale e tanto caro all’edilizia di speculazione dal dopoguerra in poi, della Variante di Piano.
Il problema di Nottola, lo si capisce durante il corso degli eventi del film, è l’assenza di Visione. Che oggi, dove sembra essere stato definitivamente espugnato il baluardo delle Ideologie, si porrebbe come necessaria ed insostituibile armatura a costruire il futuro delle nostre città. Insoddisfatta resta, ad esempio, la domanda di edifici culturali. Perché non si progetta più un centro culturale? Perché non un museo? Perché non un polo artigianale che, forse, non avrebbe avuto bisogno di abbattere e ricostruire falde per tenere comunque viva la memoria di un passato “produttivo” e, anzi, alimentandone un potenziale futuro?