Ero la Storia con la esse maiuscola, ero sempre esistita attraverso le epoche. Ed ero sempre stata zitta, mentre le ingiustizie mi capitavano accanto. Ero la Storia, ecco perché non avevo bisogno di studiarla, ecco perché non riuscivo a finire un piatto di pasta, ci vedevo dentro troppa sofferenza. Sì, ragionavo così, non fatemi domande. Appena Marchesi mi disse chi ero, ebbi il flash di uno dei tanti pranzi in famiglia in cui non riuscivo a finire una banalissima pasta al pomodoro. Per non parlare dei fili di formaggio che mi facevano diventare pazza e ora sapevo il perché: i fili erano collegamenti e mi davano fastidio perché ne vedevo troppi. Ero accanto a mio padre e non riuscivo a finire la pasta. Lui, invece, ne mangiava a grandi forchettate. Mi sembrava che stesse sopportando delle sofferenze indicibili. Del resto, doveva. Lui era la politica italiana, quella seria, era Turati, Nenni, Berlinguer. Non sarei mai riuscita a emergere senza “ucciderlo”. Perché, oltre ad essere la Storia, ero anche il futuro della sinistra, ovviamente. Viaggiai molto nel tempo e nello spazio quella notte e bevvi molto caffè. Ogni caffè mi dava un’energia vitale incredibile, così che nella visione non dormivo mai. Dopo il pranzo in famiglia mi ritrovai catapultata alla Tana del Luppolo, il bar davanti al Dipartimento di Storia. C’erano tutti i miei preferiti ed erano entusiasti che finalmente io avessi parlato, ma non potevo stare con loro tutto il tempo che avrei voluto. Avevo molti luoghi da visitare quella notte, quindi salutai tutti e tornai indietro nel passato. Avevo otto anni, ero in Chiesa e, mentre tutti pregavano, io riflettevo sul concetto di Dio, conclusi che non esisteva un Dio unico, ma ce ne era uno diverso per ciascuno di noi, insomma il concetto di Dio era relativo. Il prete chiese quale fosse la parte più importante della Chiesa. Tutti risposero: “l’altare”. E io: “la porta, se non ci fosse non potresti decidere di entrare”. A quel punto, mi svegliai nel mio letto. “che anno è?” mi chiesi. “Non mi importa, devo andare da Mattarella”. Girai la testa e vidi la sedia a rotelle accanto al letto, come al solito. “Devo andare da Mattarella, ma non con questa. Non mi servirà”. Buttai giù la carrozzina, ruote all’aria. Scivolai di nuovo nella visione. Il mondo era diventato piccolo quasi come il tabellone del Risiko e io passavo di oceano in oceano, di continente in continente, sulle spalle dei miei amici come una Rock Star che si fosse buttata sul pubblico al termine di un concerto. Arrivata sopra l’Australia, chiusi gli occhi e pensai: “È tempo di tornare a casa, gli amici ti porteranno. Ora dimmi: cosa provi per l’umanità, dillo con una sola parola”. Respirai a fondo: “Amore” dissi alla fine. Tutti quelli che mi stavano trasportando esultarono e vollero portarmi in Parlamento, ma io non ero pronta. Mi feci accompagnare a casa e proseguii il mio viaggio nel passato. Il comando “dillo con una sola parola” non era campato per aria. L’avevo preso da un gioco di parole che avevo fatto con degli amici. Era una variante di taboo, nell’ultima mano bisognava far indovinare ai compagni una parola misteriosa, utilizzando un solo termine. Da quel momento il comando “Dillo con una sola parola” mi abitava nella testa.
Ero accartocciata ai piedi del letto. “Amici, sto venendo da voi” dissi e presi a strisciare in retromarcia (chissà perché in retromarcia poi), verso il letto di mia sorella e la porta.
Ogni movimento era una sofferenza indicibile, mi sentivo come se le gambe gridassero, prima la sinistra poi la destra. Ogni movimento era un compromesso politico. “Matteo, come hai fatto ad andare avanti? Ciascuna mossa è complessa”.
“Benvenuta nel mio mondo”.
Arrivai al letto di mia sorella. Non la vedevo, ma la percepivo. Lei era diventata un simbolo, il simbolo di tutti gli studenti. Si sarebbe svegliata al momento opportuno. “Cambia verso” sussurrò Matteo. Mi girai e mi misi in posizione marine americano. Mi trascinai fino alla camera dei miei, ma lì qualcosa andò storto: mio padre si svegliò, avevo disturbato la grande storia politica.