“Ero diventata Premier”: la quarta puntata del romanzo di Cecilia Alfier

Tornando al 4 dicembre, mia madre mi raggiunse al seggio e mi diede il suo bracciale nomination. Aveva solo una A e poi tessere vuote, ma mi andava bene perché ero nel pieno della transizione e la mia identità non era ancora definita. Ormai non solo avevo abbandonato le speranze di trovare il mio vecchio bracciale, ma proprio non lo volevo più. Ne immaginavo uno nuovo, splendente, magari con le quattro case di Hogwarts incise accanto al mio nome. Insomma, lo sforzo di tenere insieme sette secoli di storia e l’attualità mi stava consumando, ma se dovessi tornare indietro rifarei quasi tutto nello stesso modo. Solo ne parlerei con qualcuno e, soprattutto, starei attenta a dove metto i gioielli.

Col bracciale di mamma al polso, tornai a salutare gli elettori e a studiarli, lì nella mia vecchia scuola elementare. Mia madre mi faceva domande strane in quei giorni: “Ho comprato questi orecchini, ho speso 4 euro e 99, secondo te cosa significa?”. Il fatto è che trovavo significati a tutto.

Il 23 dicembre, il dottore non capì tutto questo, capì solo che deliravo di brutto. Fortuna c’era papà, era lui a spiegare la situazione. Tutti i dottori che vedevo quel giorno, per lo più psichiatri, mi sembrava di averli già visti, in un libro sul Partito Democratico che stavo leggendo. Ma siccome i libri in questa storia sono importanti, ne parlo dopo, a parte. Papà stava spiegando che ero stata ricoverata il 7 dicembre, che mi avevano dimesso troppo in fretta e con gli psicofarmaci sbagliati.

Il fatto che mamma mi avesse portato il suo bracciale al seggio significava che non ce l’aveva eccessivamente con me per una discussione che avevamo avuto poco prima. Dalla scuola elementare ero sfrecciata a casa e avevo cominciato a pontificare con supponenza su come lei stesse sbagliando approccio al lavoro. Non mi ero neanche tolta la giacca, tanto avevo fretta di tornare al seggio. Il liceo XXX di Padova era diventata la migliore scuola superiore della città, dopo che mamma aveva ottenuto la presidenza. Il vecchio preside era riuscito nell’impresa di far scappare centinaia di studenti, stava tutto il giorno in ufficio con i cani da caccia a guardia della porta. Mamma aveva cominciato spalancando la suddetta porta, poi si era messa all’opera per rimediare al disastro lasciato dal predecessore[1]. Gli studenti la adoravano tutti, ma lei parlava solo dei cinque-sei che avevano fatto il progetto di robotica e voleva invitare solo i centini (quelli che avevano preso cento alla maturità) alla festa di maturità. Ero convinta che a lungo andare avrebbe perso l’ammirazione degli studenti. Mentre leggevo l’ottavo libro di Harry Potter (che ha fatto schifo a tutti tranne che a me, dal ché potete dedurre che non ero nel pieno delle mie facoltà mentali), insomma mentre leggevo, decisi che dovevo parlarle. Non la prese bene. “E sentiamo, come dovremmo organizzare la festa, secondo te?”

“Invita tutti i maturati alla festa”

“Non è possibile, sono troppi”

“Tu spedisci l’invito a tutti, non tutti potranno venire”

“Ma devo premiare i centini”

“Invita tutti e… permetti solo ai centini di portare la fidanzata alla festa”

“In questi giorni hai delle idee molto strane, sono preoccupata. Torna al seggio che è meglio.”

Era il quattro dicembre e io avevo deciso di risolvere tutti i miei problemi e diventare Presidente del Consiglio, il più in fretta possibile. Le obbedii e tornai sul luogo del delitto, che era anche il posto dove avevo imparato a scrivere e a usare il bagno disabili in autonomia. Sì, in quest’ordine, prima scrivere poi fare la pipì da sola. E giocare a scacchi ancor prima di queste due cose.


[1] Ricostruzione fantasiosa

Riproduzione riservata ©