Quello con la milza di San Matteo potrebbe addirittura essere rimasto uno dei pochi momenti di vera comunione con la terra natia, insieme ad altri modesti tentativi di rinfocolare la memoria collettiva. Lo è sicuramente anche per chi non intende affondare gli orizzonti nel microcosmo di una realtà provinciale. Le tradizioni popolari, non di meno sul versante culinario, restituiscono un’autenticità spezzata dai tempi, reperibile nelle espressioni, nei sapori e nei vissuti della provenienza. Ho iniziato ad assaporarla tardi, invitato dalla premura di un padre meticoloso nel centrare i tempi di preparazione in vista della festa, “Egg accattat ‘a meveza”, annunciava solennemente. E in cucina riposavano queste creature ammansite, imbottite di sapori. E così, nei richiami di una vigilia prolungata, è impossibile sottrarsi all’assalto dell’odore inebriante che si diffonde nei vicoli, nelle case, nelle scale affrontate a narici aperte. Ogni passo corrisponde a una premessa dirompente di bontà ineguagliabile. ‘A meveza, la nostra: tenera, profumata e ‘mbuttunat, è il risultato di un tramandamento che ne ha istituito, da scarto per palati poveri, un piatto di comunità. Nella pratica di un rito non c’è tradimento di radici. Rimangono salde nel tempo che oltrepassa le prime volte, ricongiungono a un passato che rinnova la sua grazia. Qualsiasi sia il percorso di vita di ognuno, conservano un po’ di sentimento. Nella memoria di un sapore facciamo nostra una restituzione di cose perse, traduciamo al presente un tempo che ci è stato caro. E che continuerà ad esserlo per sempre.