Era il 21 gennaio 1921 quando da una costola del Partito Socialista nacque il Partito Comunista, eppure l’Italia – a meno di sei anni di distanza dal sanguinoso intervento nella Grande Guerra – era ancora in trincea.
La storia racconta che l’impero tedesco venne isolato dallo strapotere talassocratico britannico e statunitense, mentre l’impero austroungarico – tenuto appena in vita dai baffoni paterni di Francesco Giuseppe – era un insieme eterogeneo di popoli praticamente al collasso. Siamo d’accordo, il carattere degli italiani fece la differenza e la svolta – soprattutto emotiva – inferta da Diaz aiutò il paese ad uscire dignitosamente da un conflitto logorante. Iniziarono anni di proclami irredentisti. Il nazionalismo continuava a divampare, nell’arco di appena 10 anni si passò dall’interventismo di Corradini alla fondazione dei fasci italiani di combattimento passando per l’impresa di Fiume. Il malcontento della destra per una vittoria mutilata, il mancato completamento dei confini nazionali iniziavano ad incocciare con le ferite sociali del più lungo dei dopoguerra. Problemi comuni dell’Europa dei primi anni ’20 erano, del resto, il reinserimento dei reduci in società e la riconversione degli indotti industriali.
Si srotolano anni intensi, le masse pretendevano – come indennizzo del sangue versato in battaglia – l’accesso alla politica mentre, l’esempio dell’ottobre russo, iniziava a diventare vocazione per quei popoli che covavano velleità di riscatto. La classe contadina (di cui era composta una cospicua percentuale dei combattenti) si mobilitò occupando i latifondi, lo stesso fecero poi gli operai del triangolo industriale con le fabbriche. Ampia voce in capitolo ebbero le leghe agricole che – suddivise semplicisticamente in bianche di matrice cattolica e rosse di provenienza socialista – portarono al centro del dibattito l’aumento dei salari, la riduzione delle ore lavorative e la presenza (per quanto riguarda le fabbriche) di una commissione di controllo operaio. Il susseguirsi di scioperi e serrate padronali contribuì ad esacerbare un clima già di per se teso. In Italia ciò che restava dei governi liberali provò a coagularsi intorno a esecutivi che non hanno i numeri per legiferare né tantomeno la forza per riportare le masse all’ordine, ci provarono in successione – sollecitati dalle preoccupazioni degli industriali – Nitti e il redivivo Giolitti senza riuscirci pienamente. Il periodo che abbraccia il 1919 e il 1920 passerà alla storia come biennio rosso, le forze di sinistra si troveranno di fronte a un bivio connotato da due modi di intendere il socialismo: massimalismo o riformismo? Battere i sentieri della rivoluzione oppure, semplicemente, scendere a patti con proprietari terrieri e industriali?
Eccola dunque la divisione fondamentale: piegarsi al compromesso o continuare a combattere. Delle due l’una. Una divisione che portò ad uno scisma, evidenza del fatto che si rese necessaria una forza politica che, formatasi nel lavoro, guidasse le volontà di crescita del proletariato. Classe sociale che, da sempre maltrattata, acquisì finalmente il coraggio e – soprattutto – la consapevolezza di essere la ruota portante negli ingranaggi dello Stato. La socializzazione delle terre, la collettivizzazione delle fabbriche restarono il sogno proibito perché, seppur a fatica, si tornò alla normalità – Giolitti, infatti, per scongiurare scenari da guerra civile convinse gli industriali ad aumentare i salari e ridurre le ore – del resto, meglio un salario sicuro che un futuro incerto. Da quella stagione di scontri, nel gennaio del ’21, al XVII Congresso del Partito Socialista verrà alla luce la frattura delle fratture. Il diktat del Comintern (L’Internazionale Comunista) era chiaro: espellere le correnti riformiste dal partito. La mancata espulsione fece il paio con la scissione della frazione comunista, pertanto le anime più radicali del partito fra cui Bordiga, Gramsci, Terracini, Bombacci abbandonarono i lavori e, nelle vicinanze del Teatro Goldoni di Livorno, diedero vita al Partito Comunista d’Italia.
Nasce così la parabola di un partito che forgerà il suo carattere nei decenni più caldi del nostro ‘900: dai conflitti contro le squadracce – figlie dell’avvento del Fascismo – all’intervento in sostegno degli antifranchisti in Spagna, dal sangue di cui sono cosparsi gli Appennini al “mors tua vita mea” di una dolorosa ricostruzione, dalle frequenze oltreoceaniche di uno spropositato “red scare” che imbiancava i campanili della D.C. alla difficoltà di riuscire ad ammettere che – sveglia di Khrushchev del ’56 alla mano, da Budapest a Praga – qualcosa nel paradiso chiamato URSS non andava.
Era forte il desiderio di ascoltare le esigenze dei lavoratori, dalle case del popolo ai dibattiti, dalle piazze gremite alle fabbriche. Gli autunni caldissimi dei fine ’60 sempre vissuti in prima linea. Il piombo dei cieli oscurò gli anni ’70, azioni eversive reazioni estremiste, violenza. Negli ’80, era impossibile tenere a bada le molecole della sinistra extraparlamentare. Blocco per Blocco, crisi per crisi, tensione per tensione, da un emisfero all’altro il mondo andava avanti. In Italia – attentati, servizi deviati, depistaggi, tensioni, discutibili suicidi a parte – le battaglie sostenute dal PCI per i diritti civili cominciavano a dare i propri frutti.
Enrico Berlinguer fra gli operai è la diapositiva più genuina di un partito, il tramonto di un’ideologia che si avviava verso la notte. Nel 1984 destò grande commozione la morte del Segretario e, a meno di una settimana di distanza, le urne sentenziarono lo storico sorpasso del PCI ai danni della DC. Sarà il punto più alto del Partito Comunista in Italia ma, da quel momento in poi, le ansie di rinnovamento miste allo sgretolarsi del colosso sovietico condurranno al mesto naufragio del febbraio ’91. La disgregazione. La caduta degli ideali, la nascita di un sentimento rampante nella novella Italia degli “yuppies” favorirà l’ascesa di un PSI – rinvigorito dai “peccatucci veniali” di Craxi – che si arenerà fra le scogliere giudiziarie del ’92, sotto la lente d’ingrandimento della Storia.