Non è compito facile analizzare la figura di Fabrizio De Andrè, indubbiamente una delle più carismatiche e trascinanti dell’intero novecento. Si rischierebbe di scivolare nelle banalità, nelle ridondanze, nella vociante risacca del “già detto”. Si rischierebbe inoltre di ritrovarsi catapultati nelle dinamiche del secolo breve, nella moltitudine dei volti affannati, operosi, vigliacchi, tutto sommato umani, fluidi di vizi e sofferenze. Acque, correnti, che lambiscono i moli ingarbugliati di una Genova sospesa fra i carruggi e le stelle, permeata di fatica e allo stesso tempo ormeggiata alle promesse immobilità di un triangolo industriale che, storicamente, contribuì ad alimentare divisioni più che abbatterle.
“ Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
in quell’aria spessa carica di sale
gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini
e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire
sua madre a un nano ”
Quello che compiremo attraverso Faber sarà un viaggio impegnativo, al contempo astratto e concreto, sicuramente introspettivo. Un percorso compiuto a ritroso, dall’universalità di un messaggio pregno di amore disinteressato alla voluttuosa ricerca delle proprie radici.
Inizia così la storia di De André, come ogni “storia sbagliata” che si rispetti, coltivando l’indole bonaria del fannullone poco propenso alle schematizzazioni di sorta. Sfaccendato e, di conseguenza, inviso alla gente per bene. Guardato di sottecchi ma pur sempre libero di vivere senza soffrire ansie di competizione, né tantomeno in grado di cedere alle lusinghe di una società, quella del tempo, proiettata verso i sentieri del consumismo sfrenato e del vacuo progresso.
“ Ho anche provato a lavorare senza risparmio mi diedi da fare ma il sol risultato dell’esperimento fu della fame un tragico aumento non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene ”
Giunge, puntuale e decisa come una mannaia, la rottura che De André opera nei confronti della canzonetta spicciola. Faber funge da spartiacque, straccia i veli della stereotipata ricerca del tormentone e, in un valzer di partenze senza ritorno, conferisce nuova linfa al panorama musicale italiano gettandosi a capofitto fra le spire della canzone impegnata. È il periodo della grande frenesia produttiva, della repulsione per la realtà. I suoi testi, accompagnati dal freddo grecale che preannuncia l’inverno, si diffondono repentinamente mostrando la loro vocazione più nobile, la difesa di un’identità precisa vissuta con gli occhi degli emarginati, gli ultimi: puttane, assassini, vecchiacce, storpi, omosessuali, ubriaconi.
Ognuno crocifisso dai propri peccati, ognuno irradiato da un alone di assoluta umanità, ognuno sviscerato del proprio dolore ed accolto dalla nuda terra con l’estrema consapevolezza di essere stato incompreso in vita ma reso immortale attraverso la musica.
“ Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso “
Sorge all’improvviso, da un’intuizione di Roberto Danè, quello che per lo stesso Faber sarà il disco più riuscito: “La buona novella”. Produzione basata sui Vangeli apocrifi, innovativa nel donare connotati umani alle figure cardinali del Cristianesimo. Epocali le trasposizioni in versi dei personaggi, una evasione totale dalla sacralizzazione imposta, dai dogmi precostituiti, dai salmi sciorinati a memoria lungo le navate delle chiese destinate al loro secolare ruolo deterrente e, allo stesso tempo, pedagogico.
“ Per me sei figlio, vita morente
ti portò cieco questo mio ventre
come nel grembo, e adesso in croce
ti chiama amore questa mia voce ”
Avanza senza sosta la macina del tempo e, a cavallo fra anni ’60 e ’70, sono i grandi sommovimenti sociali ad offrire spunti alla poetica di Faber che, nel contempo, si inoltra nelle traduzioni dei grandi interpreti del cantautorato europeo. Errato considerarle opere minori, nella fattispecie tradurre una poesia è essenzialmente riscriverla offrendo al pubblico nuove chiavi interpretative.
Incastonati in questo contesto emergono dalle onde degli anni i riuscitissimi riadattamenti dei capolavori – Suzanne, Le passanti, Via della Povertà – di grandissimi cantautori quali: Cohen, Brassens, Bob Dylan.
L’apice, tuttavia, verrà raggiunto con la stesura di “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, traduzione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, corredata e arricchita dalle evoluzioni esistenziali di uomini e donne che impattano mortalmente nei loro sonni senza sogni fra i lugubri bivacchi assiepati sulla collina, ultimo evocativo appiglio fra terra e cielo, fra materialismo della carne ed evanescenza dell’anima.
“ Finì con i campi alle ortiche
finì con un flauto spezzato
e un ridere rauco
e ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto ”
Colpito ferocemente dalla critica dei contemporanei – probabilmente dettata dall’innaturale confluire ideologico di anarchia e dottrina marxista- si inserisce in quegli anni l’album “Storia di un impiegato”, lucidissima analisi della stasi emotiva vissuta da un “trentenne disperato”. Vivida descrizione dell’anonimo impiegato sballottato dalle tumultuose ansie della sua epoca. Corroso dalla volontà di emergere e ritagliarsi il proprio posto nella storia scadendo nell’uso di una violenza fine a se stessa, temuta, dannosa, angosciante, in un certo senso obbligata. Eccola dunque la sintesi perfetta del sentimento di una generazione, quella sorta dalle ceneri del secondo conflitto mondiale, che vedeva sfiorire passo dopo passo ogni certezza acquisita dall’esperienza – molto spesso poco edificante – riflessa dai padri.
“ E io contavo i denti ai francobolli
dicevo “grazie a Dio” “buon Natale “
mi sentivo normale
eppure i miei trent’anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro ”
Il messaggio, fortemente travisato, pone Faber sotto la lente dei servizi segreti che, ingiustamente, lo accusano di nutrire simpatie verso gruppi sovversivi della sinistra extraparlamentare. Inizia pertanto un periodo duro per il cantautore che, seguito dalla compagna Dori Ghezzi, decide di trasferirsi in Sardegna nei pressi di Tempio Pausania. Sono anni convulsi: depistaggi, attentati e illegittime violazioni della libertà personale. Ne è vittima lo stesso De André che, sul finire degli anni ’70, viene rapito dall’Anonima Sequestri Sarda. Verrà rilasciato dopo quattro mesi di prigionia. La vicenda contribuirà in maniera forte ad incrementare la vena artistica di Faber che metterà a frutto le esperienze maturate iniziando un cammino silenzioso nelle proprie fragilità.
“ Evaporato in una nuvola rossa in una delle molte feritoie della notte, con un bisogno di attenzione e d’amore troppo “se mi vuoi bene piangi” per essere corrisposto, valeva la pena divertirmi nelle serate estive con un semplicissimo “mi ricordo”
Irrompono gli anni ’80 coronati da un nuovo sentire comune, nuove sicurezze – che la storia rivelerà in tutte le loro falsità – nuove sperimentazioni e nuove trincee di meraviglia da scavare a piene mani. Appartiene a quegli anni “Crêuza de mä”, inno alla mediterraneità scritto completamente in dialetto genovese.Un omaggio dei più sinceri mai riferiti alle proprie radici, un ritorno alle melodie popolari, alla galassia dei proverbi sussurrati dalla bonaccia. Un connubio dai ritmi incalzanti, arricchito dal clangore di catene del porto e i concitati richiami dei mercati che si srotolano dalle rive alle tavole imbandite. Vita piena, in tutti i suoi aspetti, dalle controversie risolte nel sangue all’universo sboccato delle prostitute, sfilacciate nelle loro ridanciane processioni domenicali per le vie del centro cittadino.
“ Quandu ä dumenega fan u gíu
cappellin neuvu neuvu u vestiu
cu ‘a madama a madama ‘n testa
o belin che festa o belin che festa
a tûtti a preuvu ä pruccessiún
d’a Teresin-a du Teresún
tûtti a miâ ë figge du diàu
che belin de lou che belin de lou ”
Siamo ormai alla fase conclusiva di questa nostra traversata nella folta marea dei decenni, gli anni ’90. De André sostiene con vigore le ragioni delle minoranze, il tema del viaggio e delle povere realtà condivise sotto cieli mutevoli. Prevale un sentimento antico che in Faber brilla fin dalle origini: la strenua difesa dei popoli nomadi e delle loro abitudini. Il pensiero “deandreiano” come sempre è in forte controtendenza con il ribrezzo provato dai solidi appartenenti alla gloriosa città civile. Una società che, del resto, è abilissima a tracciare confini di sangue progettando bombe intelligenti – o “poco gentili” come Faber amava definirle – per accontentare il famelico diktat di governanti sempre più tracotanti.
“ Porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare,
per un guado una terra una nuvola un canto.
Un diamante nascosto nel pane. Per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare ”
Sono questi gli anni in cui suggella una stretta e prolifica collaborazione con Ivano Fossati. I due compongono tasselli di un mosaico sempre più maturo e prezioso che trova la sua concretizzazione nella stesura di “Anime salve”.
Infine, con “Smisurata preghiera”, ecco che ci perviene il più toccante dei componimenti mai scritti.
Si tratta del vero e proprio testamento spirituale di Faber, un lavoro di un’intensità disarmante.
Ecco, dunque, l’ultima delle innumerevoli perle corrisposte al pubblico, lanciata quasi come un monito, prima di dissolversi nel suo più malinconico degli “arrivederci” e consegnarsi serenamente all’eternità.
“ Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità ”