Anche l’immunità innata, la prima linea di difesa che ha un ruolo chiave nella resistenza ai patogeni, fa la sua parte contro Sars-CoV-2 e le varianti, compresa Omicron. È la scoperta pubblicata su Nature Immunology da Matteo Stravalaci, ricercatore di Humanitas, e Isabel Pagani, ricercatrice dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e da un team di scienziati coordinati dal professor Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito Humanitas University, la professoressa Cecilia Garlanda ricercatrice e docente di Humanitas University e la dottoressa Elisa Vicenzi, responsabile dell’Unità di Ricerca in Patogenesi virale e Biosicurezza dell’IRCCS Ospedale San Raffaele.
Lo studio ha coinvolto anche Fondazione Toscana Life Science con Rino Rappuoli, l’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona e la Queen Mary University di Londra in uno sforzo internazionale volto a indagare le molecole presenti nel sangue e nei liquidi biologici e che funzionano come “antenati degli anticorpi” (i cosiddetti Ante-antibody).
L’immunità innata, la prima linea di difesa del nostro organismo, risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus. Precede e si accompagna all’immunità adattativa, la linea di difesa più specifica, degli anticorpi e delle cellule T, che può essere potenziata con i vaccini. A partire da marzo 2020 il team di ricercatori di Humanitas si è focalizzato sullo studio dell’interazione tra COVID-19 e immunità innata, area di forte competenza del gruppo di lavoro del professor Mantovani e della professoressa Garlanda.
“Anni fa abbiamo individuato alcuni geni che fanno parte di una famiglia di antenati degli anticorpi. Concentrandoci sull’interazione tra questi e SARS-CoV-2, abbiamo scoperto che una di tali molecole dell’immunità innata, chiamata Mannose Binding Lectin (MBL), si lega alla proteina Spike del virus e lo blocca” spiega il professor Alberto Mantovani.
“Alla comparsa di Omicron, Sarah Mapelli, ricercatrice bio-informatica di Humanitas, ha esteso subito l’analisi sulla struttura della proteina in collaborazione con il gruppo di Bellinzona, scoprendo che MBL è in grado di vedere e riconoscere anche Omicron, oltre alle varianti classiche del virus come Delta”.
Lo studio è proseguito poi con l’analisi genetica dei dati provenienti dai pazienti dell’ospedale, incrociati con quelli delle banche dati di tutto il mondo, condotta dalla professoressa Rosanna Asselta di Humanitas University.
“È risultato che variazioni genetiche di MBL sono associate a gravità di malattia da COVID-19” approfondisce la professoressa Cecilia Garlanda.
“Ora si tratterà di valutare se questa molecola può fungere da biomarcatore per orientare le scelte dei medici di fronte a manifestazioni così diverse e mutevoli della malattia”.
I ricercatori, inoltre, stanno valutando se MBL può essere un candidato agente preventivo/terapeutico dal momento che è una molecola funzionalmente simile a un anticorpo, cui le varianti del virus, almeno quelle note, non possono sfuggire. “Nella nostra valutazione di potenziali farmaci anti-SARS- CoV-2”, spiega la dottoressa Elisa Vicenzi dell’IRCCS Ospedale San Raffaele.
“MBL dimostra un’importante attività antivirale che potrebbe essere un’arma in più contro le varianti in circolazione, inclusa Omicron”.
Al momento non ci sono dati sull’interazione tra questo meccanismo protettivo della prima linea di difesa e la risposta immunitaria indotta dai vaccini.
“Ad oggi sappiamo che questo meccanismo di resistenza innata ‘vede’ anche Omicron”, continua il professor Alberto Mantovani. “E, quindi, probabilmente contribuisce al fatto che, per quanto questa variante sia riconosciuta in forma minore dagli anticorpi, la prima linea di difesa regge. Ciò non toglie quanto invece già sappiamo grazie ai dati: i vaccini danno una protezione significativa e fondamentale e restano la nostra cintura di sicurezza”.