Un recente sondaggio realizzato dall’istituto Demopolis ha svelato come, al netto di un tasso di disoccupazione che supera il 10% (30% quella giovanile), gli italiani indicano il lavoro in cima alla classifica delle priorità. Seguito, però, quasi con le stesse percentuali, da altre domande che non trovano riscontro nei dati reali. Diverse rilevazioni hanno infatti confermato che, ad esempio, gli italiani valutano la presenza di stranieri all’interno della popolazione ipotizzando una cifra che supera il 30% quando invece si tratta appena del 5. Sovrastimano il tasso di criminalità, obesità e malattie. Un’inconsapevolezza sintomatica di un divario sempre più netto tra i bisogni reali (il lavoro, la qualità e la salvaguardia dell’ambiente, l’efficienza di sanità e trasporti, la riduzione della pressione fiscale, la lotta alle mafie, le politiche di sviluppo per le aree più povere e per trattenere i giovani che migrano, tanto per citarne alcuni) e i bisogni percepiti. E così dilaga l’idea di un’immigrazione travolgente e inarrestabile, di città insicure e minacciose, di una società allo sbando e sempre più disgregata. Di una perdita, inesorabile, di valori. Ognuna di queste percezioni contiene un fondo di verità, ma quasi mai proporzionato all’effettivo disagio. Lega e Cinque Stelle hanno vinto le elezioni perché abili nel cavalcare i bisogni percepiti. E anche in questo primo anno di governo, di fronte alle difficoltà non hanno esitato a somministrare agli italiani dosi sempre più massicce d’irrealtà, ricorrendo a un piglio propagandistico ormai consolidato, a rassicurazioni semplicistiche e posturali. Le ragioni sono diverse e strumentali: più vige un clima di paura, più guadagnano in termini di consenso le forze che soffiano sulla paura, innalzando un nemico necessario alla propria narrazione. La paura sociale, sapientemente alimentata, non si misura per gradi, come una febbre, ma per percezione. Un episodio può avere un effetto devastante nelle menti vulnerabili intaccate dalla paura, naturalmente tese a estendere e a generalizzare su quei temi sensibili alla continua ribalta mediatica. Può valere più di ogni confortante e veritiera statistica. Eppure, per ridare proporzione agli eventi e ai fenomeni (che non significa negarli), basterebbe usare i dati. Negli ultimi anni gli omicidi sono diminuiti, le richieste di porto d’armi aumentate a dismisura. La svolta securitaria del governo pentaleghista è stata battezzata da un crescente consenso. Le reazioni emotive spesso sospendono la ragione. Altre la annientano. Mai come in questa fase storica, il confine è pericolosamente labile. Nella percezione sociale alcuni ‘sentimenti’ irrompono e si amplificano in concomitanza con la campagna elettorale, un fumo gettato negli occhi di una collettività già disorientata e infragilita economicamente. La narrazione politica, distorcendo, segna una recrudescenza. L’andamento reale dei fenomeni sfugge all’attenzione. La percezione della criminalità associata all’immigrazione, per esempio, solleva preoccupazioni che sfociano in ondate emotive soprattutto con l’avvicinarsi di appuntamenti elettorali, quando la spettacolarizzazione della paura raggiunge il suo apice innescando un risentimento sociale dapprima contenuto. Ed è assodato, ormai, il meccanismo alla base del consenso: conquistare un elettore in base al suo stato emotivo indotto, offrirgli protezione, appagare una sete che non è altro che un rigurgito. Così i temi che scandiscono l’agenda politica sono gli stessi alla base del meccanismo. Gli stessi, ossia, che permettono di intercettare consensi. Immigrazione, insicurezza, contaminazione culturale, minaccia all’identità. A scapito di tutti gli altri. A scapito dei cittadini che spesso votano contro i loro stessi interessi senza rendersene conto. E in tempi di campagna elettorale permanente, questo clima persiste. Una dinamica su cui pesa come un macigno la responsabilità di media e social network. I primi, troppo devoti alla logica per opportunità e profitto: sangue, violenze e delitti consumati ai danni di inermi cittadini rinforzano la retorica e alimentano una certa sensibilità, costituiscono un’occasione ghiotta per scorrere i dati auditel senza tribolare. Sui social, invece, le distorte percezioni vengono instillate lentamente in un processo che ha una sua scientificità. Gode di due momenti, il primo teso a disorientare l’utente e l’opinione pubblica, il secondo deputato a orientare direttamente su una precisa risposta di massa. È la politica, impenitente, a trarne il sicuro vantaggio, a prescindere dalla connivenza, talvolta provata, con chi gestisce sul web questo tipo di operazioni.