Molti ce l’hanno fatta: i giovani emigrati meridionali sono riusciti a tornare a casa da mamma e papà per le feste di Natale. Con l’Epifania che tutte le feste si porta via e l’ennesimo esborso di cifre esorbitanti, però, hanno fatto ritorno al Nord con le loro valige cariche di mozzarelle, soppressate, olio e buccacci di melanzane e le camicie stirate finalmente a regola d’arte e ben piegate da nonna. È un po’ come tornare adulti, durante quelle ore di treno o le file estenuanti in macchina o in un volo di due ore che ti porta all’altro capo dell’Italia. Ebbene sì, perché per due lunghissime e allo stesso tempo brevi settimane, si è tornati ad essere i piccoli di casa, quelli che vivono lontano, quelli da abbracciare forte, quelli che “stanno sciupati”, quelli a cui preparare la pasta al forno, quelli che per quattordici giorni devono tornare a indossare la maglia della salute, quelli da accarezzare la notte quando si sono addormentati, insomma quelli lì.
È una sensazione che ognuno di noi che si è abituato a vivere e lavorare fuori ha provato: quando si torna a casa, appena varcata la soglia, si torna un po’ bambini. Si viene coccolati, si deve fare il giro dei parenti, si deve organizzare una rimpatriata con gli amici del liceo, si viene a scoprire che qualcuno sta per sposarsi o qualcun’altra aspetta un bambino: si rientra in un vortice di abitudini che sembrava dimenticato, ma solo apparentemente. Perché casa è casa e – anche se circondati da palazzi e cieli grigi – l’odore e il rumore del mare noi del Sud ce lo portiamo dentro. Che sia a una scrivania di vetro in un grattacielo di Milano, al Politecnico a Torino davanti al portatile, in Veneto in un’azienda, in una scuola di provincia in Toscana o in Romagna, tra i palazzi futuristici di Londra, sotto la Tour Eiffel o in America, la nostra terra fa parte di noi, è dentro di noi e le radici non si dimenticano facilmente.
E, dobbiamo ammettere, è bello tornare per qualche giorno ad essere figli e staccare con la vita e la veste di adulti che ci siamo cuciti, volenti o nolenti, addosso. Però, come sempre, bisogna tornare, bisogna prendere treni, macchine, aerei, fare le valige e tornare al proprio posto di lavoro, all’altra abitazione che chiamiamo comunque casa, agli amici che abbiamo nella città dove abbiamo scelto di vivere. Salire su quel treno non è facile. Abbracciare i propri genitori con la speranza di trovare una promozione vantaggiosa e riuscire a “scendere” per Pasqua, anche solo per tre giorni, per il week end del 25 aprile o del primo maggio, è doloroso. In fondo la nostra cameretta è sempre la stessa: ci sono i poster dei nostri idoli adolescenziali, le foto in costume da bimbi sulla spiaggia, qualche pupazzo e qualche t-shirt che non ci entra più. Tutto è rimasto uguale, come se fosse cristallizzato, preda del destino delle stanze dei figli che sono andati via. Tutto è rimasto uguale ma qualcosa è cambiato: tu.
Ormai trent’anni, eppure per quelle due settimane torni ad essere l’adolescente che dormiva in quella stanzetta e che deve stare attento a non svegliare tutta la casa quando ha fatto bisbocce con i vecchi amici in un piccolo bar di una piccola provincia meridionale. Tornare a casa dei propri genitori comporta il tornare a seguire delle vecchie regole che non fanno più parte della nostra routine quotidiana e crediamo che dopo poco quelle pareti bianche ci sembreranno troppo strette, ti sentirai soffocare e non vedrai l’ora di scappare di lì e, quando salirai sul Frecciarossa delle sei, proverai sicuramente un senso di sollievo.
Quando però arriva il momento di partire e ti ritrovi con i tuoi alla stazione che ti aiutano a posizionare la valigia e controllano che tu sia seduto al posto giusto e li vedi un po’ ingrigiti – sicuramente tua madre avrà gli occhi lucidi e tuo padre ti darà una pacca sulla spalla e ti farà le solite raccomandazioni – sentirai un groppo stringerti la gola. Guarderai, dopo il fischio del capostazione, quando il treno inizia a muoversi, il cartellone azzurro con su scritto il nome della tua città e, in quel preciso istante, ti mancherà. Ti mancherà tutto. È difficile partire, è difficile tornare. È difficile ma è la vita che molti hanno scelto perché non c’erano prospettive di futuro e sbocchi lavorativi nella propria terra e, allora, come tanti anni fa i nostri antenati prima di noi hanno fatto la valigia e sono partiti, così allo stesso modo si è deciso di fare. Però è dura avere il cuore diviso tra due città lontane. C’è sempre il Natale per unire, una volta ancora, famiglie che la vita ha separato anche se solo fisicamente e per tornare a perdere lo sguardo verso l’orizzonte, tra le onde del mare.