“Sale della terra e luce del mondo”. Seconda parte: intervista ad un’infermiera durante il Coronavirus

Sono giorni ormai nei quali sentiamo ovunque parole e richiami ben precisi. Si potrebbe pensare ad un dizionario new age composto da termini che fino ad ora non avevamo mai tenuto in considerazione: “lockdown“; “distanza di sicurezza”; “virus“; “solitudine”; “Mes“; “povertà”; “pandemia”; “vaccino”; “plasma”; “fase uno e due”; “decreti”; “silenzi perenni e assordanti”;

Abbiamo – e si spera definitivamente – detto addio ad alcune di queste parole, per poi abbracciarne altre in modo anche del tutto invadente nella seconda fase che come per la prima, ha richiesto molto spirito di adattamento e svariate domande senza tempo, alle quali non sappiamo darci nessuna risposta in modo assoluto.

Un po’ di quesiti però mi rimbombano continuamente: A che tipo di stanchezza andremo incontro? Ci siamo assuefatti al dolore e alla possibilità di morire, probabilmente perché la nostra paura si è semplicemente stabilizzata? Ogni fase successiva alla precedente farà sempre più impazzire la “folla” fino a poter giungere all’anarchia totale? Aumentare la soglia del dolore significherà sempre più spesso pensare solo al generale, rischiare quindi di diventare distanti dal singolo o propendere involontariamente al cinico? Il mondo farà “bla bla bla” dimenticando le voci necessarie, come ad esempio le seguenti? Spero che nell’isteria della polemica si riesca sempre – seppur diversamente – ad ascoltare l’altro.

Ecco che a seguito di queste domande, o meglio trastulli mentali, è cresciuto sempre di più il desiderio di raccontare tre storie diverse per la rubrica “Sale della terra e luce del mondo” incentrate sulle esperienze personali di chi lavorato a stretto contatto nel settore sanitario durante l’emergenza Coronavirus. La seconda testimonianza mi è stata raccontata da un’infermiera che ha vissuto le tribolazioni della fase uno direttamente da uno dei luoghi maggiormente colpiti: una Rsa del Nord Italia; Beatrice (nome di fantasia) è una giovane infermiera originaria del Sud che si è trasferita lontana dalla propria famiglia in nome di una passione, o meglio, in nome di un amore. Sveglia e perspicace, negli anni si è fatta molto apprezzare sul territorio, intessendo notevoli rapporti umani e professionali, diventando così un importante punto di riferimento per la struttura presso la quale lavora.

Ritorniamo indietro, ai primissimi giorni della fase uno e raccontiamo la storia di Beatrice (nome immaginario) a distanza di oltre un mese e mezzo.

“Le difficoltà inerenti al nostro lavoro, durante la nostra emergenza, sono molteplici e complesse. In primis, è stato difficile fronteggiare la pandemia a causa della carenza di dispositivi di protezione per il personale sanitario. Tutto ha reso la situazione ancora più delicata e soprattutto pericolosa. Nonostante io stesso lavori in prima linea con casi positivi, tra pazienti e colleghi, ho dovuto attendere oltre un mese per fare il tampone. In questo frangente sarei potuto essere io – come qualsiasi altro collega – un soggetto asintomatico. Questo come può ben capire non è un bene, né per i pazienti presenti nella R.S.A. in cui lavoro, nè per il personale sanitario e né tanto meno per l’arrestarsi del virus. Stesso discorso per i dispositivi che soprattutto in una prima fase sono stati in assoluta carenza. In più chiaramente c’è un po’ di sconforto perché se è vero che ci diamo da fare è pur vero che vogliamo sentirci tutelati e incoraggiati, in quando lavoratori ed esseri umani, che hanno come tutti il diritto alla salute. Noi non siamo carne da macello. Non si può pensare di incentivare i tamponi solo quando subentra la paura che ci siano troppi positivi e di conseguenza meno forza lavoro che rimarrebbe a casa, perché malata” – ha affermato l’infermiere che ha aggiunto: “Secondo lei è normale che i tamponi siano stati sottoposti a coloro che non fanno strettamente parte del mondo sanitario? Ho letto di troppi calciatori o politici che hanno avuto la possibilità di effettuare il tampone nei primissimi giorni della pandemia. Perché a loro si e a noi no? Perché per noi è stato un diritto agonizzante che ha visto tempi biblici?”

“Non chiamateci eroi” mi hanno tutti più volte sottolineato e allora umilmente e con gli occhi gravidi di commozione, penso a loro come al “Sale della terra e luce del mondo”.

Continua…

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