di Prisco De Vivo
In una giornata fredda e umida ci ha lasciato l’artista Peppe Capasso. Se n’è andato nella notte del 21 marzo, nella solitudine e nel silenzio di questi giorni adombrati dalla minaccia di un virus che incombe nelle città e nei paesi della nostra nazione. Con lui si è spenta la sua mente vulcanica e propulsiva, pronta a calarsi in qualsiasi sperimentazione.
Capasso è stato un artista/agitatore del sistema dell’arte, un esploratore del caos e della
contemporaneità alienata e scucita dal tessuto storico. Nelle sue visioni ha saputo sempre cogliere umori alchemici ed antropologici dell’esistenza. È stato, anche, un ricercatore irrefrenabile del terribile e del tragico ed un accanito persecutore del nihil.
La critica lo ha affiancato al post-modern, la sua umanità era solo affine all’umano troppo umano di Nietzsche; quell’umanità disadorna in bilico tra la genesi e l’apocalisse.
Peppe Capasso era nato a Napoli nel 1950, scultore, pittore, performer e regista teatrale. In qualità di insegnate è stato responsabile della cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli; la stessa accademia dove si diplomò nei suoi anni giovanili con il maestro Augusto Perez. Ha esposto il suo lavoro in Italia e all’estero; è stato protagonista del decentramento culturale degli anni ’70, della lotta contro il potere costituito. È stato un operatore culturale indipendente ed impegnato nel sociale da più di un cinquantennio. I suoi attraversamenti lo hanno portato a fondare “Il multiplo di Marigliano”, strategiche attività espositive di maestri nazionali ed internazionali, partendo proprio da quella stagione del teatro di Marigliano con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, fino a realizzare, nel 1981, “Gli ammessi in scena”, manifestazione che vede la partecipazione delle più interessanti ricerche teatrali e performative del tempo.
Sono da ricordare, sicuramente, un inedito Toni Ferro, il giovane Annibale Ruccello ed uno
scanzonato Renato Nicolini, fino a passare a Luca Castellano; ed, infine, un altrettanto giovanissimo Gabriele Perretta che interveniva ai dibattiti con Giuseppe Bartolucci.
Nel 1983, Capasso è tra i promotori del gruppo i no/poletani con Camillo Capolongo, Luca
Castellano ed Emilio Villa. Nel 1988 è ideatore e promotore dell’evento di arti visive “Il labirinto della memoria”, ritorno di Giordano Bruno con figure di respiro internazionale dell’arte contemporanea come: Alik Cavaliere, Hidetoshi Nagasawa, Enrico Baj ed Hermann Nitsch.
Inoltre, nello stesso periodo è promotore dell’antologia di poesie lontano da Bruno “Labirinti separati” in collaborazione con lo scrittore Giacomo Scotti e con il poeta Felice Carmine Simonetti. Nello stesso anno è stato, anche, regista teatrale dello spettacolo “Vita vissuta di Giordano Bruno” con un’istrionica Wanda Marasco.
Per conoscere fino in fondo Peppe Capasso bisogna conoscere bene i seguenti poeti: Arthur
Rimbaud, Boris Pasternak e Vladímir Majakóvskij; pittori come: Ernst Ludwig Kirchner, Marcel Duchamp, ed anche, figure del teatro come: Carmelo Bene, Leo De Berardinis ed Antonin Artaud. Possiamo dire che Peppe Capasso si è mosso animatamente all’interno dell’umore di queste figure e delle loro vite, rincorrendo, talvolta, i loro fantasmi. In Capasso si può riconoscere un altro aspetto, quello del contagio; non a caso, c’è una delle sue prime mostre che ha per titolo “Il contagio dell’artiere” – opere di Peppe Capasso e di Pericle
Fassini realizzate per la galleria Arte Globo. Nel 1985 quel contagio che portava l’artiere (forgiatore dell’essere) a rendere profondo il mestiere della vita per un’arte di vita vissuta. Quel contagio l’ha sempre caratterizzato, ne ha egregiamente lasciato traccia nei suoi incontri oppure nei suoi progetti di collaborazione.
Io stesso ne sono stato contagiato verso la fine degli anni ’90 con uno spettacolo teatrale, operazione di teatro minimo dal titolo “Il tiro alla fune” realizzato a Torre del Greco.
Io interagivo con la mia presenza a tirare una grossa corda a Peppe Capasso, lui tirandola a sé ascoltava la mia interpretazione di “La Ginestra” del sommo poeta di Recanati; tra gli spettatori c’era, anche, un divertito Eduardo Sanguineti, anche lui coinvolto per un curioso acrostico sulla sua opera. La lista di collaborazioni alla sua opera è lunga e passa da poeti, critici, storici dell’arte, filosofi, antropologi, registi, attori, psicologi, politici, giornalisti, etc..
Peppe è stato, anche, un trituratore di concetti senza sosta, la sua visione rimane apocalittica e di distruzione verso l’umanità e proprio il suo umanesimo è più vicino ad un disumanesimo.
Quello di Peppe Capasso è un diario post-mortem; se solo si pensa alla sua visionarietà di una “scossa di alfabetizzazione” dove la pece nera copriva corpi e masse e le ossa considerate un ultimo vessillo, in un tunnel post-atomico realizzato da Capasso nel lontano 1984: “terrore da vendere come il coniglio per mercanzia” scriveva Enzo Battarra nel suo catalogo.
Peppe, in quegli anni, ebbe coraggio con le sue sculture, realizzando tavoli neri capovolti sorretti da grandi ossa, Perla Peragallo seduta su una lunga sedia sdraio e vomita un osso ed infine, il monumento ad Emilio Villa, lo scrittore e poeta tutto di nero seduto su una macchina da scrivere con lunghi fogli e le sue braccia e le sue mani di ossa scarnificate che battono a macchina.
La paura di un rifugio antiatomico porta a questa crudele e terribile visione quando nella distruzione la morte viene a prendere il comando ed a rifondare la vita. È proprio questo concetto che pervade in buona parte dell’opera di Peppe Capasso. Dopo la tempesta arriva l’arcobaleno; la luce e l’arcobaleno ci introducono nell’ultima opera di Peppe Capasso degli anni 2010/2018. Debbo anche, dire che Peppe negli ultimi cinque anni del suo lavoro aveva un forte interesse per il sacro e per tutti i sommovimenti che portano alla rivelazione. È da ricordare, sicuramente, la mostra-progetto “L’estetica della fede” dalle basiliche in viaggio avvenute a Cimitile nel 2005 e poi portate a New York a cura di Elmar Zorn.
Ricordo una rarefatta crocifissione del “Cristo Crocifisso” tratta dal Matthias Grünewald, oppure una crocifissione silhouettata oscura e luminosa al tempo stesso, dove impera un rosso fuoco di terra fra il vulcano ed il crepuscolo. Nelle crocifissioni di Peppe c’è un ateo cristiano che drammaticamente si interroga dostoevskijanamente. Questa scossa religiosa lo portò ad approfondire temi spirituali non più materiali e disfacenti. Ma vale anche la pena ricordare l’opera “Notte notte”, un autoritratto che mette in risalto il mistero della passione e della finitezza, opera molto apprezzata dal poeta Nino Velotti che l’ha inserita nel suo ultimo volume di poesia e immagini dal titolo “Sonetti per immagini”.
Mi sarebbe piaciuto vedere cosa avrebbe potuto portare Peppe a operare verso nuove soluzioni dell’oggi… Peppe Capasso, in questi giorni, mi è apparso in sogno mentre ero in un laboratorio di scultura e cercava di comunicarmi l’importanza della protezione, quella divina; per cui plasmavo una mascherina di bronzo con la forma di ali, ali che evocavano San Michele Arcangelo, il grande condottiero delle milizie celesti.