A ridosso di Carnevale, la tradizione culinaria nostrana si inalbera di variegate ricette gastronomiche. Oltre alla lasagna, che si differenzia a seconda della regione in cui si prepara il piatto, il Carnevale campano è ricco di sperimentazioni che si indirizzano per lo più sui piatti dolci. Ecco un elenco dei tipici dolci di Carnevale che si preparano nelle nostre zone.
Migliaccio
Uno dei dolci più famosi nella storia della tradizione pasticcera partenopea, nel periodo di Carnevale, è il migliaccio; un mix di semolino e ricotta, questi gli ingredienti chiave necessari per realizzare un piatto che vanta numerose rivisitazioni. Per i palati delicati e non solo, il migliaccio rappresenta uno di quei dolci poveri che segnano la fine della stagione invernale e l’inizio della scena culinaria pasquale. Presente sulle nostre tavole sin dal Medioevo, la sua etimologia deriva dal latino “miliaccium” che indica un tradizionale pane di miglio. Simile alla pastiera napoletana, il migliaccio, in principio, veniva realizzato anche con il sanguinaccio, anche se negli ultimi anni si è persa questa tradizione.
Conosciuta anche la variante salata, arricchita dai salumi e formaggi nostrani. Si annovera nella tradizione sorrentina anche una ricetta con gli spaghetti di Gragnano che può essere sia fritta che cucinata in forno.
Sanguinaccio
Altro dolce tipico della Campania è il sanguinaccio; come si può facilmente evincere dal nome, questo veniva preparato con il sangue del maiale. Filtrato con la dovuta accortezza, il sangue veniva poi unito alla crema di cacao, alla quale si aggiungevano caffè, cacao in polvere, cannella, chiodi di garofano, uva passa e altre spezie. Riconducibile alla figura di Sant’Antonio Abate, evocato per l’herpes zoster, il più comunemente conosciuto “Fuoco di Sant’Antonio”. Molto tempo fa, infatti, il virus si curava proprio con il grasso del maiale. Sì, proprio il maiale tanto amato dai contadini che, tra i mesi di gennaio e febbraio, potevano sfruttare ogni parte del corpo dell’animale per ogni tipo di prelibatezza. Da qui il detto: “Del maiale non si butta via niente”.
Bandita la vendita poi in Italia dal 1992 per motivi igienici – in quanto il sangue è considerato probabile veicolo di infezioni – tutt’ora in alcune zone di campagna si utilizza questo prodotto tra alcune famiglie; molte sono state le alternative altrettanto appetibili, utilizzate dai maestri pasticceri campani per limitarne il suo uso nonostante la tradizione.
Chiacchiere
Dolce simbolo carnevalesco è la “Chiacchiera” di Carnevale che a seconda della regione in cui si prepara porta un nome diverso. Vengono infatti chiamate “Chiacchiere” in tutto il centro Sud ed anche a Milano, “Bugie” in Liguria, “Sfrappe” nelle Marche, “Frappe” a Roma e in Lazio, “Sfrappole” a Bologna, “Cróstoli” in Trentino e in Friuli Venezia Giulia e “Galani” a Venezia. A base di farina e a forma serpeggiante, il dolce può essere cotto sia al forno che fritto. Secondo gli storici l’origine delle chiacchiere risale all’epoca romana, periodo in cui venivano realizzati dei dolci chiamati “frictilia“, fritti nel grasso del maiale e degustati durante i Saturnali (festività che corrisponde all’attuale Carnevale). La leggenda napoletana, invece, narra che il termine “Chiacchiera” sia nato quando la Regina Margherita di Savoia, conosciuta anche per le origini della pizza Margherita, richiese al suo pasticcere di fiducia, di inventare un nuovo dolce capace di allietare le sue infinite conversazioni nei salotti di corte.
Castagnole
La ricetta delle castagnole, conosciute anche come “struffoli di Carnevale” in Umbria, risale probabilmente a circa tre secoli fa. Nato nel Settentrione, il dolce è poi sbarcato anche verso il Sud Italia, portando con sé numerose alternative che presentano ripieni di crema o panna. Le palline formate da uova, zucchero, farina e burro, possono inoltre, essere fritte o cotte al forno.
Di recente, è stato ritrovato nell’archivio di Stato di Viterbo un manoscritto settecentesco in cui sono descritte ben quattro ricette di castagnole, tra cui una che prevede l’aggiunta di rum e liquore e un’altra che vanta un ripieno al cioccolato sia al latte che bianco.
Taralli al Naspro (o taralli glassati)
I taralli al naspro, detti anche “nasprati” o “annasprati“, sono delle ciambelline all’anice ricoperte da una glassa, il naspro, realizzato con acqua, zucchero e limone. Tipico dolce della Lucania, secondo la tradizione questa è una ricetta che andrebbe preparata durante i giorni del Carnevale. Variante nostrana è il tarallo glassato napoletano, cucinato come in Basilicata durante i giorni di Carnevale e non solo. I taralli glassati napoletani sono biscotti preparati nel capoluogo partenopeo e soprattutto nella zone di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, in cui è difficile reperire la ricetta originale, usata per lo più da panifici e biscotterie locali che si muovono segretamente come le nonne gioiose di una volta.
Zeppole di San Giuseppe
Il nome di zeppola indica vari tipi di dolci italiani. Solitamente questo dolce può essere diviso tra zeppole preparate in vista della festa di San Giuseppe e zeppole realizzate durante il periodo di Carnevale.
Molte sono le ipotesi riguardo l’invenzione di questo prelibatissimo piatto, protagonista delle tavole campane e da sempre decantato anche all’estero. Gradi, piccole, fritte o al forno, le zeppole di San Giuseppe, sono l’emblema del “Made in Sud” di cui l’origine non è certa. Preparate probabilmente per la prima volta dalle Suore di San Gregorio Armeno, o forse dalle Suore di Lucca, il piatto è un cult della cucina popolare tradizionale campana che in momenti differenti dai nostri, veniva preparato anche per strada. La prima ricetta ufficiale scritta risale al 1837, anno in cui Ippolito Cavalcanti, discendente da Guido Cavalcanti, pubblicò dopo 25 anni di ricerche, la prima trama delle zeppole:
Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza carrafa d’acqua fresca, e no bicchiere de vino janco, e quanno vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’asci a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempe co lo lanatiuro;
e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta, e la lieve mettennola ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la può manià, la mine co lle mmane per farla schianà si pe caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanielli come solo li zeppole e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna, che veneno meglio, attiento che la tiella s’avesse da abbruscià; po co no spruoccolo appuntut le pugnarraje pe farle squiglià e farle venì vacante da dinto; l’accuonce dinto a lo piatto co zuccaro, e mele.
Pe farle venì chiu tennere farraje la pasta na jurnata primma.