La disinformazione in Italia non condiziona soltanto l’esito delle elezioni politiche e gli orientamenti dell’opinione pubblica, ma miete le sue vittime anche influendo sul corso di innumerevoli esperienze imprenditoriali e culturali. Un fardello destinato ad abbattersi su settori pronti a creare sviluppo e ad alleviare le pene sociali in un momento di radicale trasformazione della società. Non si sottrae a tale implicazione il mondo della cannabis light, prima disorientato da provvedimenti di segno opposto, poi falcidiato dall’ultima sentenza che, sul piano normativo, pareggia l’ostilità politica e culturale di alcuni rigurgiti illiberali. Un connubio letale, causa della più profonda crisi del settore dal momento della sua esplosione a oggi. Si è arrestata un’incredibile espansione. Una crescita esponenziale, tanto da sembrare inarrestabile, come testimoniano i numeri: 15.000 addetti, dalla produzione alla commercializzazione, 4.000 ettari di terreno coltivati, 2.000 aziende agricole, tutte associate a Coldiretti, Cia e Confagricoltura. E poi, oltre 1.000 shop in tutta Italia, autorizzati dalle amministrazioni pubbliche, con partita Iva e registratori di cassa, per un giro d’affari complessivo calcolato intorno ai 150 milioni di euro, se non addirittura maggiore. La sentenza della Cassazione ha sbriciolato alcuni punti della legge del 2016 che autorizzava la coltivazione della canapa. La Suprema Corte ha infatti decretato il divieto di vendita dei derivati della cannabis sativa: foglie, inflorescenze, olio e resina non potranno più essere commercializzati salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante. E proprio quest’ultimo passaggio sparge perplessità sulle motivazioni della sentenza. La cannabis light poteva essere venduta proprio perché conteneva una quantità più bassa di principio attivo di quello previsto dalle tabelle degli stupefacenti, le stesse che determinano le quantità minime per classificare la sostanza come droga o meno. Ma proprio la Cassazione, le cui sezioni avevano affrontato più volte, ed esprimendo pareri differenti, casi di vendita di cannabis light, in precedenza aveva individuato nella concentrazione inferiore allo 0,5% di thc le percentuali al cospetto delle quali non si è in presenza di capacità drogante. Adesso, con l’ultima sentenza, bisognerà capire se si stabilisce una nuova soglia, e in tal senso, le motivazioni, previste per la fine di giugno, chiariranno aspetti decisivi. La pronuncia della Cassazione si fonda sull’elenco dei derivati della coltivazione autorizzati per la commercializzazione, con riferimento alla norma del 2016. Tra questi, ad esempio, non compaiono i fiori, a causa di una falla normativa: delle piante, nella legge del 2016, non vi era menzione. E i commercianti ne hanno saputo approfittare. La Cassazione ha quindi affrontato un aspetto più squisitamente penale, richiamandosi all’articolo 309 del 1998 che punisce la produzione, il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti.
Di recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato, a margine di una relazione scientifica, che il cbd, il principio attivo non illegale e presente nella cannabis light, non deve essere regolamentato in quanto non si tratta di una droga. Il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione in base alla quale il thc della canapa industriale sarà alzato allo 0,3% entro il 2021. Ma evidentemente in Italia il dibattito accusa un grave ritardo rispetto al resto del mondo. Del resto, in un paese tendenzialmente conservatore, dove la strumentalizzazione politica è sempre in agguato, i livelli di distorsione possono subire improvvise impennate. Nella fattispecie, è accaduto durante la campagna elettorale per le europee, quando Salvini ha indetto l’ultima crociata, quella contro la cannabis light. “I presunti negozi turistici di cannabis, luoghi di diseducazione di massa, vanno sigillati uno per uno. Siamo contro la droga, useremo le maniere forti”, dichiarò, stretto dai guai giudiziari del suo partito e dopo aver agitato, fin troppo a lungo per non capitalizzare in termini di consenso, il nemico migrante. Puntuali sono partiti i controlli e le denunce, soprattutto nei confronti di situazioni considerate border-line, ma che tali non erano prima della sentenza. Le forze dell’ordine, però, si muovono in assenza totale di direttive, in alcuni casi promuovendo sequestri in maniera coattiva, in altri rassicurando i negozianti. Il caos è inevitabile. Il paradosso è che i gestori degli shop, in ogni momento in cui si trovano dietro al bancone, rischiano l’accusa di possesso di stupefacenti a fini di spaccio, un reato penale relativo a un prodotto su cui pagano regolarmente le tasse. Ma escludendo le bordate di Salvini, la politica tace. Le opposizioni balbettano mentre dalle parti dell’altro contraente del contratto del “cambiamento”, nessuna voce si è levata. Solo la ministra della salute Grillo, timidamente, ha speso una dichiarazione sul fatto più lampante: non si tratta di droga. Quasi intimoriti dall’alleato ingombrante, gli esponenti del M5S soccombono a un’altra narrazione, accerchiati da chi, rispetto a loro, la demagogia ha saputo farla fruttare. Come vasi di terracotta in mezzo a bombe innescate a propaganda. La parabola dei cinque stelle si evince anche e soprattutto su questi temi: dalle grandi battaglie di Beppe Grillo per la legalizzazione della marijuana all’accondiscendenza all’alleato proibizionista il passo non è stato breve, ma sarà fatale.
La vicenda determinerà contraccolpi pesanti anche sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, con un mercato nero regalato alle mafie e alle piazze di spaccio. Un incremento che riguarderà le sostanze davvero stupefacenti. Senza contare che la canapa rappresenta un’autentica risorsa per molti settori: tessile, edile, farmaceutico, cosmetico. Gli investitori, non facoltosi banchieri ma piccoli imprenditori con alle spalle i risparmi di famiglia, per lo più giovani, si sono radunati per un presidio sotto il Ministero dello Sviluppo Economico a chiedere a gran voce alla politica di intervenire con una norma definitiva. A chiedere alla politica di occuparsi concretamente della risoluzione di casi controversi che frenano l’economia, la sostenibilità. Che rallentano modelli di sviluppo e processi culturali. Una politica ebbra di propaganda, fino a questo momento in grado solo di speculare sulla molteplicità dei bisogni reali.