L’esito impietoso delle ultime regionali condanna il Movimento all’irrilevanza. L’hanno capito dalle parti del Pd, dove l’idea di riequilibrare gli assetti della compagine di governo non dispiace affatto, così come provare a offrire una sponda agli alleati pentastellati, stavolta da una posizione di vantaggio. Se è vero che la resurrezione del Pd non è attribuibile esclusivamente ai meriti del Pd, è anche vero che le elezioni in Emilia-Romagna e Calabria hanno premiato la prospettiva di uno schieramento largo, di un centrosinistra plurale tanto caro al segretario Nicola Zingaretti. Uno schema che al Nazareno sono convinti di poter attuare anche in vista degli appuntamenti di primavera. Sei regioni al voto sono un ulteriore snodo decisivo per il governo e per le sorti del Paese, ragionano i dem, e bisogna puntare su alleanze larghe, rivolgendosi alle forze di maggioranza e a quelle civiche. “Rispettiamo le autonomie regionali ma lavoriamo affinché si costruiscano progetti comuni regione per regione”, ha ripetuto Zingaretti.
Sulla Campania, ossia la regione in cui la dialettica tra il governatore Pd e il Movimento 5 stelle ha assunto più che in ogni altra latitudine i toni ruvidi di uno scontro, si concentrano le attenzioni dei vertici nazionali del Pd: un’alleanza è considerata cruciale e se la trattativa di scalzare il presidente uscente a beneficio di Sergio Costa si è rivelata infruttuosa, soprattutto considerando il radicamento territoriale della truppa deluchiana, allora provare ad attrarre i Cinque Stelle, ai minimi storici dai tempi del VaffaDay, è il tentativo da mettere in atto per salvare capra e cavoli. Una soluzione che consentirebbe a De Luca di mantenere la leadership in Regione, a Zingaretti di attuare il suo piano di apertura e di rendere ben più strutturale l’alleanza con i pentastellati su base nazionale, e ai Cinque Stelle di evitare un nuovo, mortifero, precipizio elettorale. Perché l’attuale scenario politico in Italia ha prodotto un bipolarismo figlio di una polarizzazione spinta e frutto delle esasperazioni sovraniste e di una sinistra che prova a offrire una visione della società alternativa, in cui difficilmente il M5s, inquinato da prove di governo spesso dilettantistiche, riuscirà ad aprirsi varchi. Questa, d’altronde, è una tendenza mondiale.
A tutto questo concorre anche la svolta ambientalista studiata da De Luca e dai suoi, un modo per neutralizzare la tentazione Costa, ministro dell’Ambiente che rimane sullo sfondo per un’eventuale candidatura al posto dell’ex sindaco di Salerno, e per lanciare un segnale d’apertura nei confronti dei pentastellati. La strategia è già in atto, e lo rivela un inedito De Luca in veste di federatore: “I Cinque Stelle hanno espresso in questi anni una spinta verso la modernizzazione, l’innovazione anche verso temi ambientalisti vari”. Dose rincarata dal segretario regionale Annunziata: “Occorre un’intesa con tutte le forze antisovraniste. Ci sono i margini per lavorare bene”.
Nel Movimento campano, nonostante l’acredine che sgorga dalle dichiarazioni della capogruppo Ciarambino (anche per motivi personali nemica giurata del governatore), avanza il fronte dell’alleanza con il centrosinistra. I parlamentari campani e gran parte degli attivisti propendono per un patto col “nemico”. Inevitabile, teso alla sopravvivenza. Se il Pd avesse accantonato De Luca, riferiscono fonti del M5s, saremmo già in campo con un nome unitario e un programma per battere la destra. Che qui, al Sud, non è soltanto Salvini ma anche Berlusconi, come dimostra la Calabria. Ma il veto su De Luca inizia a scricchiolare. Nelle ultime riunioni, attivisti ed eletti dibattono animatamente ma nell’oscurità della perdita di consenso, ogni spiraglio fa vacillare anche i più strenui oppositori di un posizionamento a sinistra. Il ricorso alla piattaforma Rousseau rimane l’ultima spiaggia, temuta perché imprevedibile. Il voto sullo strumento riconducibile alla Casaleggio Associati ha già condotto il Movimento in un vicolo cieco in Emilia e Calabria. Adesso, non si può più fallire.