La logica del doppio forno continua a contraddistinguere la vita politica del M5S, in perfetto stile democristiano. Da quando i pentastellati hanno abiurato alla purezza di un tempo (“il M5S non si alleerà mai con nessuno”), nelle crisi politiche dell’ultimo anno e mezzo le trattative del partito più votato nel 2018 hanno sempre riguardato i due opposti interlocutori: la Lega e il centrosinistra. E adesso si rinnova lo schema, complice gli ostacoli sorti nelle ultime ore con i dirigenti del Pd e il pressing di Salvini, pronto a ritrattare il non ritrattabile pur di non rimanere isolato nell’attuale scacchiere politico. L’incontro tenutosi ieri a casa del sottosegretario Spadafora tra Di Maio e Zingaretti, ha evidenziato la volontà del capo politico del Movimento di dettare le condizione. Che sono tre e perentorie: Conte-bis, taglio del numero di parlamentari e legge sul conflitto di interessi. Tre punti per complicare le trattative, perchè tra le varie possibilità di convergenza, su questi temi la distanza tra le due forze è sempre stata marcata. E allora perchè il Movimento ha accelerato? Perchè Di Maio ha riallacciato i contatti con la Lega. Gli uomini di Salvini gli hanno proposto una riedizione del governo gialloverde che gli garantirebbe la Presidenza del Consiglio, con Conte, da pedina essenziale nelle condizioni poste al Pd, a figura scaricata in un futuro ri-governo con la Lega, con la quale i rapporti dell’avvocato del popolo sono abbondantemente compromessi. La spaccatura all’interno del M5S pareggia con quella all’interno del Pd. Grillo è su tutte le furie, non intende più legarsi agli uomini di Salvini. Mentre le anime del populismo pentastellato, Di Battista e Paragone, osteggiano la trattativa con Zingaretti e i suoi e spingono il Movimento verso il nuovo abbraccio con la Lega. “Mi auguro che non esista dopo tutto quello che e’ successo l’ipotesi di un doppio forno, e ho fiducia che non sia cosi’, perche’ altrimenti sarebbe una cosa molto grave dal punto di vista della trasparenza della politica”, afferma Zingaretti. Le trattative, comunque proseguono. Ma la sensazione, suffragata da elementi fondati, è che la partita del M5S si stia giocando su un doppio fronte.
Al termine del primo giro di consultazioni, vigeva ancora prudenza ma che la crisi aperta dai calcoli elettorali della Lega fosse un groviglio di incognite, il Capo dello Stato ne era consapevole fin dall’inizio. Il suo sguardo teso, quando a sera si presenta davanti alle telecamere e alla nazione, rivela tutta la preoccupazione per una fase che rischia di minare le prossime scadenze economiche, per giunta con la recessione alle porte. “Nel corso delle consultazioni mi è stato comunicato da parte di alcuni partiti che sono state avviate iniziative per un’intesa in Parlamento”. L’accordo in ballo è quello ormai noto tra M5S e Pd, assorti in una fitte rete di colloqui e trattative per offrire al Paese l’alternativa al sovranismo leghista. I prossimi due giorni saranno decisivi per delineare un accordo programmatico tuttavia non scontato. Il primo nodo emerso negli ultimi frangenti riguarda la misura simbolo che i pentastellati vorrebbero condurre in porto, il taglio dei parlamentari. Da sempre osteggiato dai dem, il provvedimento per cui spinge la base 5S non è considerata prioritaria da Zingaretti che tuttavia ha aperto al dialogo. Il secondo nodo riguarda il premier: per il Pd è imprescindibile un’assoluta discontinuità con il governo gialloverde, dunque l’ipotesi di un Conte-bis al momento non trova varchi nella trattativa. Si ragiona su un nome terzo, come quello di Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat, ministro del Lavoro nel governo Letta, amico di Romano Prodi ma gradito anche a Beppe Grillo per la sua sensibilità sui temi dell’ambiente e del sociale. Per la presidenza del Consiglio circolano anche i nomi del giurista Sabino Cassese e di Raffaele Cantone, ex presidente dell’Anticorruzione.
Ma la partita si gioca sui programmi e sulle idee di Paese. È lì che la volontà politica può agire in nome della mediazione. Curiosando tra le posizioni sui vari temi, si può scorgere un’ampia schiera di affinità tra i due schieramenti. Non a caso buona parte dell’elettorato 5s, soprattutto ora che la Lega ha drenato i voti di “destra” del Movimento, proviene dal centrosinistra. Sull’economia Di Maio ha parlato di stop all’aumento dell’Iva, taglio del cuneo fiscale, abbassamento delle tasse per le imprese che assumono, tutte misure condivise dal Pd. Convergenze che affiorano anche su salario minimo, declinato in modo diverso ma nella sostanza uguale. Tutte e due le forze evocano una manovra equa, con misure a sostegno di famiglia, natalità, disabili, emergenza abitativa. “Ricette economiche e sociali in chiave redistributiva, che apra una stagione di investimenti”, la definisce Zingaretti. Il punto su cui la convergenza è massima è sull’ambiente. Un “Green New Deal” su cui coincide la visione di grillini e zingarettiani, meno quella della componente renziana. Pieno accordo ci sarebbe sulla lotta all’evasione fiscale e su un piano di investimenti per il Sud. Poi su scuola pubblica e sanità pubblica. Sui due cavalli di battaglia leghisti dell’autonomia differenziata e dell’immigrazione occorre mettere ordine. In merito al primo tema si registra ancora una spaccatura geografica all’interno delle due forze: indipendentemente dal partito, gli esponenti del Nord premono per l’approvazione dell’autonomia, quelli del Sud erigono barriere. Sull’immigrazione, punto centrale per Zingaretti che ha posto come condizione l’abolizione dei due decreti sicurezza, c’è da constatare l’assoluto disagio dell’ex partner di governo della Lega, pronto ad assecondare Salvini quando si trattava di salvare l’esecutivo, adesso spaesato e senza una linea definita, salvo individuare nella modifica del Regolamento di Dublino una soluzione imprescindibile.
Per giungere a un accordo che sia innanzitutto un patto di legislatura, c’è tempo fino a martedì. Quello che viene definito governo “MaZinga”, dalla crasi tra i cognomi dei due leader, potrà nascere soltanto dopo il prossimo giro di consultazioni programmate da Mattarella tra martedì e mercoledì. Innanzitutto occorre indicare il nome del possibile premier cui il Capo dello Stato affiderà il compito di formare il governo, concedendo altri due o tre giorni per partorire la squadra. Senza accordo, Mattarella scioglierà le Camere e firmerà il decreto con cui il presidente del Consiglio indice elezioni in un arco compreso tra i 45 e i 70 giorni (ne servono almeno 60 per consentire il voto degli italiani all’estero) . Ma con il secondo giro di consultazioni fissato per martedì, salta l’ipotesi del voto in ottobre. La prima data utile sarebbe il 3 novembre. Per Mattarella il voto è l’extrema ratio ma la risoluzione della crisi deve avvenire in tempi brevi, lo richiede l’attuale situazione. “C’è stata una rottura polemica tra i due partiti che componevano la vecchia maggioranza. La crisi va risolta in tempi brevi, all’insegna di decisioni chiare”.