Il sì era la scelta giusta: una persona in particolare mi aveva convinto di questo. E questa persona si chiama Filippo Fiori, il sindaco del mio comune, soprannominato “il cementificatore” da generazioni di oppositori (fra cui la nostra), soprannominato “tenero orsacchiotto” da me. Una sera, dopo un confronto sul referendum organizzato dal Comune, mi parlò e mi disse: “Io, comunque, voto sì”. Corrugai la fronte; come sarebbe a dire che vota sì? Perché? Se fossi stata un critico letterario avrei detto che il personaggio Fiori non era ben costruito, non era credibile. A parte il fatto che era di destra (ma questo non significava nulla), soprattutto era un avvocato. Gli avvocati sono essenzialmente dei rompicoglioni, tutti quelli che conoscevo erano per il No, perché studiavano il testo della nuova costituzione coi raggi X e sapevano spiegare esattamente i punti che erano scritti male, come aveva fatto il mio amico Leonardo. Orsacchiotto votava sì perché era sindaco: quando sei sindaco (non quando lo fai e basta, ma quando lo sei) tutte le altre identità passano in secondo piano e si crea una sorta di cameratismo fra amministratori, ti rendi conto che vorresti lavorare, ma tre quarti del tempo lo passi a star dietro alla burocrazia, quindi qualsiasi cosa ti semplifichi la vita o permetta di semplificartela è ben accetta. Anche una riforma scritta male. Mi immaginavo il conflitto interno alla testa di Fiori e, se alla fine aveva deciso di approvare la più grande riforma dell’odiatissimo Governo Renzi, significava che era la cosa giusta da fare. Presi a fare quest’introspezione psicologica con chiunque, mi aiutava a mettermi in contatto con il genere umano, per abbattere le gerarchie che ci dividevano. Fino a conseguenze estreme e in un certo senso prevedibili per una ragazza che non aveva più il suo nome al polso.
Era cominciato tutto come un gioco, faceva ridere. Volevo capire come funzionava il Partito Democratico. Perché non erano mai d’accordo su nulla? Perché la riforma stava spaccando il PD? Avevo accettato di prendere la tessera a vent’anni, troppo presto per capire quello che essa comportava. Avevo accettato perché Andrea, il nostro candidato sindaco e amico di famiglia da una vita, mi voleva in consiglio comunale. Insomma, avevo preso la tessera per aiutare un amico (e che amico, un figo pazzesco) e fare del bene. E ora quella tessera a forma di puzzle mi stava dividendo dagli altri. Quando entrai da Degli Innocenti uno di quei giorni, lo trovai che spiegava la riforma. “No, basta” dissi “ancora questa roba”.
“Sopporti, A., sopporti”
Ma non riuscivo a sopportare. Mi imbucai a lezione da Feltracco e cominciai a piangere a dirotto.
“Cecilia,” mi disse “che le succede?”
“È tutta colpa di Degli Innocenti”.
“Che ha fatto?” Mi offrì dell’acqua, che io tracannai.
“Il suo lavoro”.
I miei compagni dissero che il professore aveva toccato un argomento sensibile.
“Sono piddina, ma non sono cattiva”, aggiunsi.
Era una situazione stupida, inaccettabile. Cominciai a provare dapprima insofferenza, poi odio per tutto ciò che divideva le persone: tessere, e-mail PEC (quelle istituzionali), dare del Lei e le gerarchie in generale, come accennavo prima. Insomma, avevo cominciato a studiare il PD e avevo capito (o creduto di capire) come funzionava la baracca e (soprattutto) i burattini. Mi ero fatta l’idea che la poltrona di segretario nazionale del Partito fosse una sorta di Trono di Spade, fatto con le lame dei nemici morti. Se ti siedi male muori dissanguato. Alla faccia del Degli Innocenti che dice che il Trono di Spade non va bene come lettura politica.